mercoledì 7 dicembre 2011

Una stravagante esercitazione


Dopo tre mesi d’addestramento, fui assegnato al reparto di selleria reggimentale e, ben presto, mi accorsi di essere stato destinato ad un incarico decente: i compiti della selleria erano abbastanza semplici, rispetto ai normali servizi di caserma quali guardie armate, piantoni, ronde ed altro. Acquisita la necessaria padronanza con i cavalli, la docile Alfetta fu definitivamente rimpiazzata dal ben più energico ed ardimentoso Alone, un grande cavallo nero che quasi era necessaria una scala, per salire in sella. L’affiatamento con Alone raggiunse in fretta ottimi livelli finché divenimmo albania, racconti, cavalleggeri, livorno, ETScompagni inseparabili. Insieme facevamo escursioni nei campi, raramente per le comuni strade, durante le quali incontravamo ostacoli naturali, quali siepi e fossati, che Alone superava sempre senza difficoltà. Non di rado capitava di guadare un fiume e l’acqua arrivava a sfiorare la pancia dell’animale, ma non per questo esso si tirava indietro. La caratteristica peculiare di Alone consisteva nel non rifiutare mai l’ostacolo, come si dice in gergo: affrontava con fiero cipiglio qualsiasi cosa gli si parasse davanti e saltava senza la minima esitazione. Al galoppo, quando il mio cavallo si presentava al cospetto di un ostacolo, si preparava sempre col dovuto anticipo ed io assecondavo i suoi movimenti, o meglio, li anticipavo, da buon cavallerizzo, pronto per seguirlo nel balzo. L’aspetto maestoso e la fierezza con cui si presentava agli ostacoli facevano di lui un cavallo affidabile al punto che veniva schierato, ed io con lui, tra i primi della fila, immediatamente dietro all’ufficiale che guidava il manipolo. Durante le esercitazioni, il primo della fila era il capitano ed il secondo ero io con Alone. Un gran bell’animale.
Un giorno dei tanti, in cui stavamo strigliando le nostre cavalcature nella stalla, fummo convocati per un’esercitazione all’interno del maneggio coperto del Reggimento.
Il maneggio era un’immensa costruzione in mattoni rossi e pietra, di cui la stalla e la selleria facevano parte integrante, quasi totalmente occupata dalla pista disseminata di ostacoli artificiali e mobili. Uno dei lati lunghi della costruzione era interamente dedicato ad una tribunetta, costituita di cinque scalini di legno, a disposizione degli ospiti in occasione di parate ufficiali. Una staccionata, sempre di legno, separava la tribunetta stessa dalla pista vera e propria garantendo agli spettatori un sufficiente grado di sicurezza e di tranquillità. Il tetto era sostenuto da spettacolari ed enormi travi di massiccio legno, forse castagno, che conferivano alla costruzione stabilità e robustezza.
Nella consueta adunata che precedeva sempre le esercitazioni, eravamo schierati fronteggiando la tribuna, nell’ordine prestabilito dal comando ed io, come al solito, mi trovavo di fianco al capitano che di lì a poco avrebbe condotto l’andatura. La mia posizione di privilegiato era assicurata non tanto dalla mia abilità di cavalleggero, quanto piuttosto dalle doti naturali della mia cavalcatura: il fatto che non rifiutasse mai l’ostacolo, era uno stimolo importante per gli equini del resto dello squadrone che, magari solo per spirito d’emulazione, seguivano senza difficoltà il capofila. Un cavallo indeciso, in una posizione così strategica, avrebbe potuto mettere in seria difficoltà lo svolgimento della parata. Con uno squillo, il trombettiere dava il via all’esercitazione e continuava poi ad impartire gli ordini eseguendo sequenze ben definite che i cavalli, perfettamente addestrati a mutare il passo in relazione al ritmo scandito dalla tromba, seguivano senza difficoltà. Solo la tromba impartiva gli ordini. Ogni squillo di tromba assumeva per i cavalli alternativamente l’ordine di passo, trotto o galoppo. L’abilità del cavaliere consisteva nell’assecondare le movenze dell’animale battendo la sella, come dicevamo noi, cioè alzandosi sulle staffe ed alternativamente sedendosi al ritmo dell’andatura. La sincronia dei movimenti, inoltre, assicurava contro l’insorgenza di fastidiosi mal di schiena e, quel che è peggio, fondo schiena che potevano affliggerci anche per diversi giorni.
Iniziavamo al passo, poi al trotto, di nuovo al passo ed infine al galoppo: le esercitazioni al coperto terminavano, quasi sempre, con qualche giro compiuto a saltare gli ostacoli precedentemente disposti sul percorso.
Un’immagine che ancora conservo orgogliosamente, mi ritrae in atteggiamento arrembante durante il coreografico salto di un ostacolo: essa è palesemente un abile montaggio del fotografo del Reggimento, anche se, in realtà, ero abbastanza capace nel salto degli ostacoli ed ho ricevuto spesso riconoscimenti che purtroppo sono andati perduti nelle peripezie che mi hanno coinvolto negli anni successivi. Mi rimane solo un ferro di cavallo in alluminio, col tempo decorato da un fiocco rosso, quale premio per essermi distinto durante un’esibizione interna del Reggimento.
L’esercitazione in questione si stava svolgendo sotto i migliori auspici: Alone andava che era una meraviglia e tutto lo squadrone seguiva a ranghi serrati. Completato l’addestramento, il capitano, dalla testa della fila, in groppa al suo magnifico stallone bianco e nero, fece un cenno perentorio all’indirizzo del trombettiere che intonò le brillanti note che preludevano al salto degli ostacoli.
Alone si lanciò immediatamente al galoppo sfrenato sulle orme della cavalcatura del nostro capitano, ad una distanza tale da prevedere di affrontare l’ostacolo in totale sicurezza. Alone prese il galoppo come mai aveva fatto in precedenza ed io fui costretto ad aggrapparmi al collo ed alla criniera per assecondarlo. L’ostacolo, quattro nudi pali di legno posti di traverso a simulare una staccionata, si avvicinava inesorabilmente. Una volta al suo cospetto, tuttavia, io saltai agevolmente l’ostacolo, mentre Alone rimase dall’altra parte, a zoccoli bloccati. Il cavallo si era improvvisamente ed inaspettatamente impuntato sulle zampe anteriori disarcionandomi e catapultandomi rovinosamente a più di dieci metri di distanza, nel composto di segatura e paglia che ricopriva la pavimentazione del maneggio. Dietro: un putiferio. Il cavallo dietro ad Alone impuntò, imitando il compagno in tutto e per tutto, disarcionando a sua volta il proprio cavaliere anche se meno rovinosamente. Gli altri sbandarono pericolosamente: alcuni di loro andarono a cozzare contro la staccionata, altri, più fortunati, aggirarono l’ostacolo all’ultimo momento. Molti dei miei commilitoni andarono a sbattere contro la nuda terra, ed altri scavalcarono la balaustra finendo sui gradini della tribunetta, incapaci di reagire all’inattesa situazione. Dal canto mio, reduce da un lungo volo oltre l’ostacolo e da un ruzzolone in mezzo alla paglia sul duro pavimento, stentavo a capacitarmi di cosa aveva potuto provocare una sbandata del genere. Ancora intontito dal duro colpo sofferto mi ritrovavo, inerme spettatore, ad assistere alle estemporanee evoluzioni della truppa, con la testa che mi girava vorticosamente. Il Capitano, attratto dal trambusto, si era arrestato poco più avanti ed osservava, attentamente e senza battere ciglio, l’evolversi della grottesca situazione. Io non sapevo più a che santo votarmi. Con la paglia che mi usciva persino dalle orecchie, alternavo uno sguardo al mio comandante ed uno ai compagni d’armi confidando in un rapido acquietarsi delle turbinose acque. Cavalli strascicati per terra e divise militari sparpagliate sul fondo del maneggio stavano finalmente cercando di riassumere la posizione eretta e, per mio sollievo, potevo notare che nessuno si era fatto del male. La tempesta era in fase di risoluzione allorché scorsi, con la coda dell’occhio, che il capitano era smontato da cavallo e si stava lentamente avvicinando sbattendo ritmicamente il frustino d’ordinanza contro il robusto cuoio degli stivali. Stordito ed incapace di qualsiasi reazione, ero ancora seduto per terra con le gambe leggermente flesse, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa sconsolatamente accolta dal palmo delle mie mani aperte.
«Cavalleggero Volterrani!» Mi apostrofò duramente il capitano. «Chi è stato il più cretino: Alone o te?».
Becco e bastonato! Intimorito dal tono della voce dell’ufficiale, non mi azzardavo a dare una risposta e lui insisteva:
«Di chi è la colpa, tua o del cavallo?».
«Mah! Signor capitano…» Balbettavo io a fatica, sputando qua e là i fili della paglia che avevo ancora in bocca.
Silenzio di tomba: perfino gli animali, ormai in posizione eretta, sembravano avvertire la gravità del momento e non si lasciarono sfuggire neanche uno sbuffo, dalle narici sudate.
Il Capitano non se ne fece né in qua né in là e, col cipiglio consentitogli dalla divisa che indossava, insistette nel chiedermi di chi era la colpa o chi fosse stato il più cretino tra me e la mia cavalcatura. Da recluta, al cospetto delle tre stellette che ornavano le spalline della giacca e dell’atteggiamento superbo dell’ufficiale, mi feci piccolo-piccolo e con un fil di voce mi limitai a rispondere un: «Signorsì, Signor Capitano!» che non stava né in cielo né in terra, ma che fu sufficiente a scatenare nel mio interlocutore uno sbotto di risa tonanti al quale, ben presto si unirono tutti coloro che avevano assistito alla scena. Da principio umiliato, ma poi divertito, finii per unirmi all’ilarità generale: mi rialzai sereno, mi scossi la giacca ed i calzoni impolverati, recuperai il copricapo a bustina ed andai a controllare che neanche Alone avesse subito alcun danno.
Per concludere, il divertimento dell’ufficiale consisteva nell’avermi portato a darmi del cretino per conto mio, oltre a farmi ammettere di essere stato un incapace, escludendo a priori una qualsiasi responsabilità dello stimatissimo Alone. Devo riconoscere, per contro, che la sortita del mio superiore aveva risolto in fretta e sdrammatizzato una situazione che poteva avere conseguenze ben più tragiche per me, per il mio cavallo e per il resto della truppa. Sfiorata la tragedia ed appurato che il manipolo, cavalli e cavalieri, stava bene, il capitano aveva dimostrato lo spirito giusto per risolvere in fretta la delicata situazione.
Un pizzico d’umanità, anche nell’ambiente militare, ogni tanto non guasta!

giovedì 13 ottobre 2011

Lo slittino


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Il sole stava per tramontare, quando alla fine del febbraio del 1941, giungemmo in una delle zone montane scelte per un campo invernale, forse sulle pendici delle alpi Pennine (da Voghera ci eravamo diretti a nord transitando per il paese di Oleggio).
La neve era abbondante, nonostante non ci trovassimo in montagna, forse più in alta collina, a giudicare dalla vegetazione e dalle lievi pendenze affrontate nel raggiungere il sito.
Nella penombra del precoce tramonto invernale, si scorgeva una grande distesa innevata, al riparo di un crinale roccioso, quasi completamente circondata da abeti ed altra vegetazione pedemontana. Solo il limite sud, a giudicare dalla posizione del sole al tramonto, era completamente sgombro e sconfinava in un evidente pendio: quella che oggi si potrebbe chiamare una pista per sciare. La delimitazione della discesa, sui lati, era garantita dalla bassa vegetazione boschiva, laddove, più in basso, la pendenza diminuiva sensibilmente trasformandosi in un ampio pianoro.
Allestimmo in fretta le tende militari cinque per cinque, per l’appunto adibite ad ospitare cinque soldati ciascuna, e disponemmo il cerchio dei cavalli precedentemente liberati dalle costrizioni delle finiture. Faceva un gran freddo tuttavia l’equipaggiamento da campo si rivelava piuttosto efficace consentendoci di affrontare agevolmente i rigori del periodo. Le spesse coperte dal colore scuro indefinito ed il pesante pastrano facevano in pieno il loro dovere e devo dire che anche la divisa invernale, se della misura giusta e ben attillata, era sufficiente a mantenere il corpo ad una temperatura sopportabile durante i quindici giorni del campo.
Una volta completato l’allestimento del campo, ci stavamo organizzando attorno al bivacco, per la frugale cena quando il capitano, comandante del campo, mi chiamò a gran voce:
«Cavalleggero!» Fece con voce tonante al mio indirizzo col suo classico, arcigno modo di fare.
Il capitano era un tipo burbero, ma quello che io definirei un falso burbero: quando chiamava a gran voce incuteva timore, ma spesso lo scoprivamo a ridere sotto i baffi, forse compiacendosi dell’effetto che il suo atteggiamento generava sulle nostre facce spaurite.
In quell’occasione, ed in molte altre, corsi prontamente al suo cospetto e mi presentai sull’attenti, in osservanza al rigore imposto dalle regole militari, sfoggiando il saluto marziale:
«Comandi, Signor Capitano!» gridai pronto.
«Antonio, seguimi!» Continuò, concedendomi questa volta il beneficio del nome di battesimo, aspirando una boccata dal sigaro Toscano che pendeva dalle sue labbra.
Io fui investivo dalla nuvoletta di fumo azzurrognolo generata dal sigaro e lo seguii in silenzio per qualche metro, fino al limite massimo del pendio che guardava a sud, dove trovammo posteggiato un simpatico slittino di legno chiaro. Stupito, notai che il capitano si stava sedendo sullo slittino in questione e lo stava rivolgendo in direzione della discesa. Sistemato il pesante pastrano alla bell’è meglio ed impugnata la cordicella collegata alla parte anteriore dello slittino, il capitano si tolse il mozzicone di sigaro dalle labbra, lo spense accuratamente nella neve pressata dagli scarponi e mi rivolse nuovamente la parola:
«Volterrani, dammi una spinta!» Ordinò, ritornando a chiamarmi per cognome.
«Signor Capitano». Mi risentii io impettito sull’attenti. «Io le do una spinta, ma se prende il via, chi la ferma più?».
«Cavalleggero! T’ho detto di darmi una spinta: è un ordine! Non vorrai contravvenire ad un ordine?».
Cosa potevo fare? Non avevo altra scelta se non assecondare le richieste del mio capitano. A quel punto mi allontanai di un paio di passi e, dopo una breve rincorsa, calzai bene i guanti di pelle ed appoggiai i palmi delle mani aperte alla schiena del superiore spingendolo violentemente verso la discesa.
Una breve esitazione ed una leggera in traversata, poi lo slittino puntò decisamente verso la discesa innevata prendendo via-via velocità col procedere verso valle. Nei primi metri, il capitano dimostrò di governare agevolmente il mezzo compiendo ampie ed eleganti curve a zig-zag assecondate dall’armonico movimento del busto, pur infagottato nel pesante pastrano militare. Di lì a poco, tuttavia, la velocità incrementò al punto che le curve divennero sempre meno ampie ed i movimenti del graduato sempre meno eleganti e più goffi.
Dalla volata che aveva, e un po’ per il crepuscolo incombente, riuscivo a malapena a scorgerlo, giù per il pendio. Improvvisamente, forse a causa di un argine contro cui cozzò lo slittino o per chissà quale altra ragione, scorsi il mio superbo superiore che rotolava rovinosamente nella neve e rimbalzava a destra e a manca come un pallone impazzito. Più tardi avrei scoperto che l’incremento della velocità dello slittino fu tale da indurre il capitano a scovare un modo per rallentarne la corsa. Intimorito dal pericoloso e progressivo avvicinarsi della fine del declivio, l’ufficiale aveva pensato bene di far cambiare direzione allo slittino che s’intraversava causando il pericoloso e spettacolare ruzzolone.
Immobile sul colmo della discesa, non osavo immaginare la reazione del capitano al suo ritorno al campo. Lo osservavo risalire faticosamente la china, con lo slittino a traino ed era mia intenzione manifestare almeno apprensione, allo scopo di attenuare l’eventuale strigliata. Nonostante l’impedimento del cappotto e degli scarponi anfibi, mi misi a correre giù per il pendio per andargli incontro e sollevarlo, almeno, del peso dello slittino. Man mano che ci avvicinavamo, notavo il pastrano quasi completamente coperto di neve e riuscivo solo ad intuire la sua faccia scura. Giunti a pochi di passi di distanza, il Capitano si fermò, ed io feci altrettanto, scagliò lo slittino sulla neve e si mise le mani sui fianchi osservandomi con un cipiglio da intimorire il più spavaldo degli uomini. Pochi secondi a sopportare lo sguardo di ghiaccio, pienamente in sintonia con l’ambiente circostante, poi, all’improvviso, il capitano scoppiò in una fragorosa risata finendo per coinvolgermi completamente. Ridendo, mi avviai verso di lui per raccattare lo slittino, ma quando gli fui vicino egli si ricompose e mi apostrofò con un tono gelido:
«Ah! Ridi pure?».
Costretto dalle circostanze, dovetti reprimere il riso che pure era sgorgato così spontaneo. Mi caricai lo slittino sulle spalle e m’incamminai affondando gli scarponi anfibi nella neve alta. Nel silenzio più completo, rotto solo dal fruscio dei passi nella neve, affrontammo il tratto più alto del declivio ed il percorso di ritorno verso il campo, col buio che oramai si era impadronito della zona. Successivamente, nella stessa serata, mi capitò di transitare nelle vicinanze della tenda allestita a mensa ufficiali dove il Capitano e gli altri ufficiali del campo organizzavano le attività per la giornata successiva, alla luce flebile dei lumi a petrolio. Pur mantenendo la statuaria posizione, il superiore non riuscì a trattenere un sornione sorriso ed un’accattivante smorfia del viso, assolutamente in contrasto con l’austerità imposta dal grado elevato e dalla divisa indossata.
Il buio non era abbastanza fitto da celare l’inattesa seppur benevola reazione del severo ufficiale.

venerdì 2 settembre 2011

La chiamata alle armi

   
Il 3 gennaio del 1941, fui chiamato a svolgere il servizio militare ed ero in ritardo, rispetto alla chiamata regolare in quanto, alla prima visita, fui fatto rivedibile: in sostanza, pur nato nel 1919, partii assieme agli scaglioni del 1920. A dire il vero anche la classe 1921 partì insieme a noi, in anticipo, rispetto alla chiamata regolare, a causa della guerra in corso. La mia destinazione fu il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”, di stanza a Voghera, ma ero pienamente consapevole del rischio reale di essere travolto dal conflitto, prima o dopo.

antonio tonino volterrani, albania, racconti di un cavalleggero, etsLa sera della partenza, prima di uscire da casa, la complessa operazione dei saluti ai numerosi familiari (il nostro nucleo era composto di tre famiglie intere, undici persone in tutto) fu abbastanza macchinosa. Ovviamente i miei genitori ottennero un trattamento di riguardo e mia madre, in particolare, si dilungò in penose raccomandazioni presagio di un futuro per niente sereno.
Prima di cena, una visita al casale in cui abitavano i miei futuri suoceri mi aveva consentito di tributare il doveroso e penoso saluto al mio unico amore: Giorgina mi chiedeva di tornare presto ed io non facevo altro che assicurarglielo fermamente tuttavia, in cuor mio, temevo che la separazione sarebbe durata desolatamente a lungo. Il freddo pungente aveva accompagnato le nostre conclusive effusioni e la lasciai, in lacrime, sul pianerottolo delle scale esterne di casa sua illuminato dalla flebile luce della luna, mentre mi allontanavo mesto. All’altezza del pozzo, mi voltai un’ultima volta accennando ad un saluto con la mano, prontamente ricambiato.

In compagnia di Gino, il mio fratello maggiore, m’incamminai malinconicamente verso la stazione ferroviaria di Cecina dove, intorno alla mezzanotte, era previsto passare il treno che mi avrebbe condotto fino a Genova; la coincidenza per Voghera mi avrebbe consentito di giungere a destinazione.
La pallida luna della fredda serata invernale rischiarava i nostri passi sulle strade bianche in mezzo alle terre di Collemezzano, poi attraversammo San Pietro in Palazzi e finalmente giungemmo, con sufficiente anticipo, alla piazza alberata antistante la stazione di Cecina. Durante il tragitto, il dialogo con mio fratello fu imperniato su previsioni riguardanti il servizio militare, la vita di caserma, le esercitazioni e tutto il resto ma non pronunciammo una sola parola sul possibile coinvolgimento nel conflitto mondiale, anche se il tarlo s’insinuava inesorabilmente nel mio cervello preoccupato. In quel momento, oltretutto, eravamo ignari che mio fratello stesso, pur più anziano di me di ben nove anni e già congedato da lungo tempo, sarebbe stato oggetto di una nuova chiamata alle armi a causa della piega che il conflitto avrebbe preso da lì in avanti. 
Il treno giunse puntuale, a mezzanotte. Ci abbracciammo calorosamente. A stento riuscii a trattenere le lacrime ed un nodo mi serrava la gola riarsa dalla commozione. Salii i due alti scalini e m’incamminai nel corridoio del vagone, senza voltarmi. Udii il pesante portello che sbatteva, subito prima che il fischio del capotreno dichiarasse il via libera alla partenza del convoglio. Mi sedetti sulla nuda panca di legno, ma non resistetti alla tentazione di affacciarmi al finestrino cosicché mi alzai di nuovo, abbassai il vetro e mi sporsi alla ricerca di un ultimo sguardo familiare. Mio fratello levò in alto l’inseparabile cappello grigio scuro, stile Borsalino, in un benevolo saluto ed io contraccambiai agitando la mano, mentre la stazione sfilava lentamente all’indietro. Rientrai con la testa.

Ci volle poco a capire che, nel mio stesso scompartimento, qualcun altro si preparava ad affrontare un destino simile al mio. Rincantucciato in un angolo, un ragazzo aveva seguito le mie mosse fin dal momento in cui ero entrato nello scompartimento. Dopo pochi chilometri spesi a squadrarci reciprocamente, egli si fece avanti.
«Militare?» mi chiese.
«Cavalleggero!» risposi semplicemente.
«Anch’io!» rispose sollevato «Mi chiamo Nello e sto andando a Voghera!» riprese porgendo la mano per la presentazione.
Era nativo di Bibbona, una borgata a pochi chilometri da Cecina. Ci rallegrammo della lieta combinazione che, se non altro, ci consentiva di condividere il viaggio ed affrontare insieme le difficoltà d’inserimento in caserma.
Presto passò il controllore che rimosse un talloncino dalla cartolina-precetto di un colore azzurro sbiadito, l’equivalente del biglietto ferroviario, per i militari in trasferimento. Sonnecchiammo, durante il tragitto, cullati dal classico, monotono frastuono generato dal passaggio delle ruote del vagone sopra le giunture delle verghe della strada ferrata. Al grido del controllore che segnalava l’approssimarsi della stazione di Genova Brignole, ci alzammo, ci stiracchiammo le membra rattrappite raccattammo le rispettive valigie e ci appropinquammo verso l’uscita. L’imponente aspetto della stazione incuteva timore a due ragazzi che mai si erano allontanati dal podere di famiglia, se non per qualche escursione nei villaggi limitrofi, tuttavia non ci perdemmo d’animo. L’impiegato dell’ufficio informazioni c’indicò un autobus del servizio pubblico che ci condusse ad un’altra stazione di Genova, Piazza Principe, dove, nel giro di un’oretta, avremmo dovuto imbarcare su un altro convoglio per percorrere la tratta finale fino a Voghera. 
Giungemmo a destinazione alle primissime luci dell’alba. Nevicava a grosse falde. Rincalzammo il collo nel bavero alzato del cappotto e scendemmo mesti tuttavia attenti a non scivolare sul marciapiede imbiancato. Gettammo, negli ambienti solitari della stazione, smarriti sguardi alla ricerca di una divisa o di qualsiasi altro punto di riferimento. Nell’atrio, finalmente, ci accorgemmo di un gruppetto di ragazzi pressoché nostri coetanei, tutti coi capelli cortissimi, che facevano capannello attorno ad un personaggio che potevamo solo intravedere. Ci avvicinammo e scorgemmo il cappello a bustina di un militare che, con voce stentorea, stava imponendo la propria autorità sui novelli militari più disorientati che interessati. Ci unimmo al gruppo e ci presentammo al coetaneo graduato (avremmo poi scoperto che si trattava di un caporale di truppa). Di gran carriera il caporale diede inizio alla marcia. Attraversammo la piazza antistante la stazione e ci dirigemmo, trafelati ed oberati dal peso della valigia, verso un colonnato che ci protesse dalla nevicata incombente, sempre al seguito dell’arrembante passo del nostro accompagnatore. Al termine del loggiato, tuttavia, al cospetto di un muro nudo, il caporale si fermò repentinamente pronto a cambiare direzione verso la propria destra ed altrettanto fecero coloro che lo seguivano nelle immediate vicinanze. Purtroppo la reazione delle seconde file, tra le quali mi trovavo anch’io, non fu altrettanto pronta e finimmo per sospingere e poi schiacciare le prime file ed il caporale stesso contro l’inatteso muro. Tutto mi sarei aspettato dal primo impatto con la nuova realtà fuorché una musata contro l’intonaco ruvido di quella parete apparsa dal nulla.

È tutto vero, lo assicuro: ho riconosciuto il loggiato e, soprattutto, il muro fatidico durante una visita di qualche anno fa a Voghera, insieme al fedele compagno d’armi Ardeno, con cui avrei condiviso parte delle mie disavventure. 
La nevicata si placò un poco, allorché giungemmo al cospetto dell’imponente facciata della caserma “Vittorio Emanuele II”, sede del 13° Reggimento Cavalleggeri “Monferrato”. Era quasi mezzogiorno, quando varcammo il maestoso portone d’ingresso. Anche i miei nuovi compagni, come me, ruotavano la testa a destra e sinistra, quasi ritmicamente, assecondando lo sguardo che esplorava l’ignoto ambiente circostante.
La prima giornata, assolutamente campale e trascorsa nell’approssimazione più totale, terminò sul pagliericcio della scuderia, dove trascorremmo la prima notte senza una coperta o quant’altro avrebbe potuto rendere meno crudo e brutale l’impatto con la nuova realtà. Ci consolava che l’ambiente era reso, se non altro, sufficientemente caldo dalla presenza e dall’alito dei numerosi cavalli. La spartana sistemazione fu il più azzeccato dei presagi di ciò che avremmo dovuto aspettarci dall’imminente esperienza militare.
La mattina successiva, con le ossa a pezzi e più stanchi della sera precedente, per la scomoda posizione tenuta durante la notte, eravamo già di visita in infermeria. Completamente nudo, di fianco al mio nuovo amico, nelle identiche condizioni, attendevo il mio turno in una specie d’anticamera completamente disadorna e con le pareti ricamate da antiestetiche macchie di muffa verde. Entrai timidamente nell’ambulatorio e declinai le mie generalità al soldato di turno dopodichè fui invitato a salire su una bilancia: poco più di sessanta chili. Poi mi posizionai vicino ad una colonna graduata raggiungendo la tacca del metro e settantuno ed infine mi presentai al cospetto dell’ufficiale medico. Seduto al di là di una scrivania scura piena di fogli e cartelle, mi porse un sacco di domande su eventuali gravi problemi di salute in famiglia, tipo diabete, epilessia ed altre, poi si alzò ed osservò la bocca, la gola, il naso e le orecchie. Con attenzione esaminò la mia capigliatura alla ricerca, per altro vana, di eventuali pidocchi o altri parassiti. Attastò la base del mio collo, sotto la mandibola poi spostò la sua attenzione all’inguine. Con due dita esercitò un’energica pressione tra la coscia e il corpo, prima da una parte poi dall’altra, esortandomi a tossire ripetutamente: niente ernia inguinale. L’esito negativo di una radiografia al torace sancì la definitiva idoneità all’arruolamento della recluta Volterrani col 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”.

Fui spedito in magazzino dove altri militari mi rivestirono da capo a piedi e mi fornirono di tutto quanto avrei potuto aver bisogno durante la mia permanenza in caserma: dal vestiario alle borse da viaggio, dai bottoni al filo per cucire, dalla crema da barba al rasoio. Riposi l’abbigliamento borghese nella valigia e me la dimenticai sul fondo dell’armadietto a fianco della branda finché, attraverso la fureria, ne feci un pacco postale da inviare a casa mia. 
Durante il periodo d’addestramento, imparai a conoscere i cavalli, a prendermene cura con la striglia, a governarli, abbeverarli e soddisfare ogni loro necessità. Imparai soprattutto che, per un cavalleggero, tale ero destinato a divenire io, il cavallo viene prima di tutto: al ritorno da un’escursione, prima si sistema il cavallo, si mette a suo agio, poi si pensa a noi stessi.
Mi fu affidata Alfetta, dopo qualche giorno, una baia cavallina troppo docile e timorosa per far parte di un reggimento di soldati, ma probabilmente ritenuta adatta ad assecondare le inevitabili incertezze di un aspirante cavalleggero. Il carattere docile di Alfetta, comunque, non si palesò subito anzi, la prima volta che provai a darle da mangiare, ad onor del vero un po’ impacciato, fui ripagato con un morso ad un braccio e solo la mia prontezza di riflessi mi consentì di evitare guai peggiori. Poi, superato il primo inevitabile scoglio delle presentazioni, Alfetta si dimostrò disciplinata ed accondiscendente a qualsiasi mio approccio. La strigliavo ogni sera ed ogni sera le riempivo di appetitoso Energon, un pastone secco di avena, biada, farina di carrube ed altri cereali, la taschetta che le fissavo dietro le orecchie con robuste cinghie di cuoio. La abbeveravo col secchiello, un contenitore impermeabile dalla forma a mantice che, una volta ripiegato, poteva essere facilmente riposto nella tasca del borsone da viaggio insieme alla taschetta per il mangime.
Durante il periodo d’addestramento, le sedute con i cavalli, nel grande maneggio coperto, si alternavano ad esercitazioni di ginnastica libera in palestra. In particolare il mio approccio con alcuni attrezzi della palestra non fu dei più felici: la corsa e le evoluzioni a terra non erano un problema, così come la salita sulla pertica, la giravolta alla sua sommità, oltre la traversa orizzontale, e la conseguente discesa. Neanche il volteggio al cavallo con maniglie, nonostante un esitante approccio, si rivelò particolarmente complicato. Al contrario, mi scontrai più volte, e piuttosto duramente, con l’ascesa della fune fino ad incaponirmi come se avessi un conto personale da regolare: e l’ufficiale istruttore rincarava la dose, sollecitandomi con repentine bacchettate del frustino di cuoio sui polpacci, ogni volta che mi vedeva in difficoltà alla base della corda. Non fu facile, tuttavia dopo qualche giorno, una volta affinata la tecnica e spronato calorosamente dai compagni, finalmente ci riuscii meritandomi perfino i complimenti dell’ufficiale in questione, il quale sembrava bearsi dell’effetto delle sue scudisciate piuttosto che delle mie acquisite capacità fisiche.
Fuori della palestra, il confronto con gli animali, per la verità, era molto più esaltante: imparai a cavalcare in posizione eretta, a battere la sella, a saltare gli ostacoli ed assecondare le movenze della mia cavalcatura. L’affiatamento con l’animale aumentava col progredire delle esercitazioni e finimmo per divenire un tutt’uno, nelle evoluzioni richieste dall’istruttore.


Sotto le armi ebbi modo di fare molte amicizie e, oltre a Nello, col quale avevo condiviso il viaggio, conobbi Ardeno ed Osvaldo, anch’essi miei conterranei: pur essendo residenti nelle campagne di Collemezzano, come me, non era mai capitato di frequentarci da civili, ma ciò non si rivelò assolutamente un ostacolo alla nostra amicizia, se vogliamo favorita e poi rafforzata dalla situazione contingente. Entrambi si trovavano sotto le armi da circa sei mesi e confidavano di congedarsi entro l’anno solare o, al massimo, all’inizio di quello successivo, al termine dei previsti diciotto mesi di naia: purtroppo la sorte aveva in serbo ben altro, per loro… ed anche per me!

sabato 23 luglio 2011

Inizia la storia

Era l’estate del 1939 allorché mi resi conto delle attenzioni particolari dedicatemi da Tonino, la persona con cui avrei condiviso il talamo nuziale per oltre sessanta anni.
Avevo da poco compiuto i quattordici anni, lui non ne aveva ancora compiuti venti e non appaia strano che, a quei tempi, un amore sbocciasse già in età così tenera, soprattutto la mia. Mio padre era molto severo sull’argomento ai limiti dell’intransigenza ed io ero costretta ad incontrarmi col mio spasimante esclusivamente 
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di nascosto e, oltretutto, piuttosto raramente. Vivevamo in cascinali di poderi limitrofi in quel di Collemezzano, nell’entroterra Cecinese, e le occasioni per incontri in intimità erano davvero rare: ci scambiavamo languide occhiate nei fugaci, occasionali incontri che avvenivano nell’arco della giornata, durante le brevi pause concesse dal duro lavoro dei campi, o ci concedevamo poche effusioni, nascosti dietro i pagliai sull’aia o nel fienile, al riparo da sguardi indiscreti.
Qualche volta, sempre all’insegna della più totale clandestinità, gli scrivevo struggenti lettere che affidavo ad una vicina di casa nonché amica comune, affinché provvedesse a recapitarle a destinazione. Lui, utilizzando lo stesso metodo, mi rispondeva puntualmente. Nelle missive amorose ci confessavamo i sentimenti reciproci, promettendoci ed auspicandoci una vita insieme all’insegna dell’amore più profondo e della fedeltà reciproca.
            Inutile rimarcare che, un po’ per la mia giovane età, un po’ per l’assenza d’occasioni, la nostra relazione di quel periodo si limitava allo scambio di qualche sfuggevole e struggente bacio a fior di labbra e niente più: era la più classica e platonica delle relazioni tra un uomo ed una donna o, per meglio dire, tra un quasi uomo ed una ragazzina quattordicenne.
            Il nostro immateriale rapporto si protrasse fino a poco prima del 3 gennaio del 1941 allorché il mio uomo ricevette la cartolina precetto che lo convocava ad assolvere gli obblighi di leva a Voghera, presso il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”.
            A quel punto, mio malgrado tuttavia confortata dal fatto che avrei compiuto sedici anni di lì a meno di un mese, fui costretta ad affrontare la severità del mio burbero padre confessandogli il mio interessamento per quel giovane militare e chiedendo l’autorizzazione ad instaurare con Tonino (così veniva chiamato all’epoca) almeno la relazione epistolare che mi avrebbe consentito di rimanere legata a lui nel lungo periodo del servizio di leva, i canonici diciotto mesi (salvo, ahimé, complicazioni!). La prospettiva della chiamata al fronte, oltretutto, conferiva a quella richiesta un’intensità alla quale mio padre dimostrò di non poter resistere. La nostra storia d’amore assunse tutti i crismi dell’ufficialità allorché Tonino, qualche sera prima della partenza, si presentò all’uscio di casa con un mazzolino di fiori di campo, per mia madre ed una bottiglia impolverata di vino invecchiato, per mio padre. L’intento, per niente celato, era quello di comunicare a mio padre Florindo, soprannominato Buccia, tanto per la dura scorza quanto per il carattere irrequieto, le sue ferme intenzioni nei confronti miei e della famiglia tutta. Il buon esito del colloquio stabilì, di fatto, l’inizio del nostro fidanzamento.
           
Durante il periodo di leva, quotidianamente gli scrivevo una lettera, una cartolina o gli inviavo una fotografia con tanto di dedica a tergo e lui puntualmente rispondeva con altrettanto ardore e passione.

Offro a te mio caro amore con profondo affetto.
Assieme alle mie amiche sono la tua cara Giorgia”.

            Si legge sul retro di un’istantanea in cui faccio parte di un gruppo di amiche e conoscenti ritratte da chissà chi durante una pausa dal duro lavoro dei campi.

Col più grande affetto, dono a te mio unico e
caro tesoro. Ti ricordo con affetto.
Ti abbraccio e ti bacio caramente, tua Giorgia”.

Recita il retro di una foto che mi raffigura seduta su una sedia nella sala di posa del fotografo, mentre un’istantanea che lo ritrae nell’impegnativo salto di un ostacolo riporta a tergo:

Un ostacolo che ricorda tutta la mia vita militare:
a te l’offro, a te mio amore ricordandoti sempre.
Un bacio e un saluto. Tonino”.

Una fotografia in cui Tonino è appoggiato al muro della caserma, in divisa da cavalleggero con la sigaretta in mano durante una breve pausa al termine del rancio, riporta la dedica:

Offro con affetto alla mia cara.
Ti bacio e ti abbraccio, tuo caro Tonino.
Dopo il rancio ed il desiderio di una sigaretta”.

Si evince una vena poetica nella dedica a tergo di una foto di Tonino in compagnia di un paio di commilitoni che egli definisce “intimi amici”:

Un forte abbraccio,
un bacio ed un saluto sincero:
questo è il tuo amore cavalleggero”.

Le lettere che ci scambiavamo, purtroppo, non hanno resistito all’ineluttabilità delle vicende della vita, capitolando vittime degli innumerevoli traslochi che hanno caratterizzato la nostra lunga esistenza insieme.

Nei pochi giorni delle uniche tre licenze ottenute durante la permanenza a Voghera, una quindicina di mesi in tutto, Tonino ed io sfruttammo l’opportunità ed il privilegio di poterci incontrare alla luce del sole, scoprendo così che la nostra relazione si stava profondamente e fortemente consolidando.

            A primavera dell’anno successivo però, il crudele destino, materializzatosi negli infami registi delle nefandezze dell’epoca, decise di porre un ostacolo enorme sul percorso appena iniziato della possibile vita in comune. La cartolina ufficiale del 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”, che ritrae il suo mezzo busto in divisa incorniciato da un ferro di cavallo, è datata 6 aprile 1943 e riporta a tergo:

Offro con affetto, tuo Tonino. Baci cari.
Addio, speriamo a presto.
Presto te le manderò di nuovo, un abbraccio, tuo Tonino.
Ricordati di un cavalleggero”.
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7. ogni termine mi porta al tuo nome”.

            Un codice di facile interpretazione consente di leggere nella sequenza di numeri il nome di “T.O.N.I.N.O.” ed è altrettanto semplice attribuire la lettera “G”, iniziale di Giorgia, al numero 7 in calce.
            Nei ghirigori che ornano le poche parole sul retro della fotografia intuivo un tentativo di Tonino di comunicare l’intensità dei propri sentimenti nei miei confronti conferendo loro l’importanza che si tributa ad un opera d’arte interamente dedicata alla mia persona.

A Pasqua, pochi giorni dopo, Tonino fu costretto a seguire le sorti del reggimento d’appartenenza in missione in Albania.

            Il futuro si dipinse a tinte cupe e, pur tacendocelo reciprocamente negli ultimi strascichi epistolari prima della partenza, i nostri cuori affogavano in ansie struggenti, come a presagire la lunga e forzata interruzione nella nostra relazione amorosa. Potevamo aspettarci di tutto, da quella disgraziata esperienza, perfino la peggiore delle sventure eppure, sulle ali dell’entusiasmo e della speranza caratteristiche della verde età, non ho mai realmente disperato per le sorti del mio uomo.


Ho sempre considerato il distacco come un arrivederci, mai come un addio!

mercoledì 2 marzo 2011

Introduzione

Introduzione

Antonio, classe 1919 e sottolineo: mil-le-no-ve-cen-to-di-cian-no-ve. Nasce da Ottavio e Carmelinda, il 6 d’ottobre a Casale Marittimo, in provincia di Pisa, agli albori del ventennio maledetto, e si barcamena tra le tenute dei conti della Gherardesca, San Vincenzo e Collemezzano, nelle campagne di Cecina. Per inciso, io ho sempre conosciuto sua madre come nonna Sabatina e solo sulla sua lapide ho scoperto quale era, in realtà, il suo nome di battesimo.
Partito per il servizio militare il 3 di gennaio del ’41, in ritardo di un anno in quanto rivedibile alla prima visita di leva, viene tristemente coinvolto, come tutti i suoi coetanei d’altronde, nelle vicende belliche del secondo conflitto mondiale, con tutte le atrocità che ne sono derivate. Se è minima la coincidenza che anch’io sono partito per il servizio militare il giorno 3, questa volta d’agosto del 1983, è senz’altro più rilevante il fatto che esattamente nello stesso giorno di gennaio di 43 anni più tardi nasceva suo nipote, mio figlio. 
La destinazione è il 13° Battaglione dei Cavalleggeri “Monferrato”, di stanza a Voghera e, dopo oltre un anno d’addestramento, viene inviato in missione in Albania dove, purtroppo, trascorrerà quasi quattro lunghissimi anni, due dei quali senza aver modo di inviare notizie a casa e tanto meno di riceverne.
Molti episodi hanno caratterizzato quel lunghissimo e triste periodo ed ho voluto raccogliere parte di essi in questo volume che da a13a.gifsempre ho sognato di scrivere. Ci tengo a far presente che ho ascoltato svariate volte le storie di mio padre, ma solo tardivamente ho preso la decisione di mettere nero su bianco allo scopo di rendere partecipe, chi le leggerà, delle peripezie vissute da quegli sventurati che, come Antonio (o più precisamente Tonino, come lo chiamavano all’epoca), hanno avuto la disdetta di trovarvisi coinvolti.
Le difficoltà sono emerse, quando ho cercato i luoghi nei quali si erano sviluppati i fatti a cui fa riferimento nelle sue narrazioni. Tenendo presente che sono passati più di sessanta anni dal più recente degli episodi, pretendere una precisione maggiore è pura follia. Oltretutto, sarà possibile comprendere il motivo di qualche approssimazione se si pensa che Tony ed i suoi compagni di sventura hanno trascorso il periodo in questione a sfuggire da possibili esecuzioni ad opera di eserciti avversi, da probabili prigionie nei famigerati lager nazisti oppure ancora a cercare la via di ritornare a casa, piuttosto che a rendersi conto di come, dove e perché i fatti si svolgevano.
Questa non è la “storia” del nostro esercito e tanto meno il diario di uno dei soldati dispersi in Albania dopo l’epilogo di quello sciagurato 8 settembre del 1943: è solo il risultato di una serie di racconti “attorno al fuoco” estratti, in ordine sparso, dalla voce di un uomo che ha davvero vissuto quelle esperienze. Nel narrare gli episodi più toccanti, la voce si è inevitabilmente incrinata per un accesso di commozione a stento dominato dal suo carattere sensibile. Tonino ha davvero fatto parte di quei centomila soldati ed oltre che costituivano le forze militari dell’Esercito Italiano in Albania. Agli ignari militari dei contingenti inviati oltre l’Adriatico, mal vestiti, estremamente malnutriti ed altrettanto mal guidati, fu assegnato l’improbabile, per non dire impossibile compito di recuperare la disastrosa e fallimentare Campagna di Grecia. Dopo l’8 settembre ed il disgraziato epilogo, molti soldati italiani, guidati da ufficiali all’altezza della situazione, si sono uniti alla resistenza albanese conglobando le forze verso il comune nemico allo scopo di liberare l’Albania stessa dall’occupazione tedesca.
Tonino ed i suoi compagni di sventura no! Essi, lasciati completamente allo sbando da comandanti evidentemente dal polso debole, in balia del destino, hanno cercato e trovato rifugio presso alcune famiglie del posto sforzandosi di tirare avanti, pronti ad approfittare della prima occasione per tornare in patria. Non mancano settimane intere trascorse a girovagare per i boschi dell’entroterra, senza cibo e senza una meta cui fare riferimento per un possibile ricovero.
Tonino non è un eroe ma uno dei tantissimi, dimenticati protagonisti del drammatico epilogo della seconda guerra mondiale e di quella sventurata campagna.
Il ritorno in patria va inteso come coronamento dell’estrema determinazione che le avversità patite nella terra ostile non hanno fatto scemare. All’inizio d’agosto del quarantacinque, o alla fine di luglio, le testimonianze discordano, Tonino ritorna a casa in preda ad una febbre malarica che i sanitari dell’ospedale di Gioia del Colle avevano, a suo tempo, definito cronica, ma che si è poi fortunatamente risolta per il meglio. Il ricongiungimento con la famiglia e l’incontro con l’amata, che qualcuno aveva anche cercato di fargli dimenticare, sono il giusto premio per l’esule ammalato; e poco importa se, alla prima occhiata, Tonino non riconosce la ragazzina sedicenne che aveva lasciato e che si era naturalmente evoluta in una giovane donna di vent’anni pronta ad accudire al suo uomo ed alla futura famiglia.

E che dire di Giorgina? Mia madre, di sei anni scarsi più giovane, si era promessa sposa al suo uomo fin dalla tenera età di quattordici anni ed ha atteso con trepidazione che egli ritornasse dalla guerra. Pur non ricevendo notizie per diciannove lunghissimi mesi tuttavia gli è rimasta fedele, confidando nella felice risoluzione di una vicenda che tutti consideravano senza futuro. A dispetto del burbero padre, che già s’immaginava una “vedovina in giro per casa”, la pazienza di mia madre è stata finalmente premiata con la ricongiunzione all’anima gemella.
A casa avrà probabilmente ricevuto più di una proposta, in relazione alla floridezza della giovane età, ed avrà subito critiche più o meno dure da parte di conoscenti o familiari che, meno di lei, credevano nel ritorno dello sperduto e sfortunato protagonista della seconda guerra mondiale. Eppure non ha esitato: quando il suo lui ha fatto ritorno in patria, Giò aveva da qualche mese compiuto i venti anni e riceveva il meritato premio per aver atteso lungamente e, negli ultimi diciannove mesi, senza sapere perché, il suo cavaliere errante. Giò ha sempre fermamente creduto che, nonostante la scarsità e, in seguito, l’assoluta mancanza di notizie, Tonino sarebbe tornato, un giorno o l’altro, a stringerla tra le sue braccia.

Inframmezzate alle avventure militari ed alle vicende post-militari di Tonino, ho raccolto alcune sensazioni trasmessemi dalla memoria di Giorgina, la protagonista femminile della vicenda, che da sessanta anni ed oltre condivide con lui i crucci e le gioie della convivenza matrimoniale.
Nei suoi resoconti, spicca la necessità di ricevere notizie e la continua ricerca del prete o del Conte di turno, personaggi influenti nella povera società contadina, che fossero in grado di entrare in contatto con il suo uomo, oltre l’Adriatico, o quantomeno con qualcuno che ne avesse sentito parlare. Ciò che prevale nei suoi ricordi, tuttavia, è ben altro. Di continuo si respira la fresca brezza della speranza e, nonostante tutto, la fiducia nei disegni del destino che, dapprincipio crudele, possa saldare il grave debito, restituendole il maltolto ancora prima di goderne realmente il contatto.

Il caro vicino di casa, premonitore sul letto di morte, è l’ultimo, disperato appiglio a cui aggrappare la speranza del ritorno, di lì a breve concretizzatosi nell’abbraccio del futuro consorte.

lunedì 10 gennaio 2011

non me ne pentirò

Albania. Racconti di un cavalleggero
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Con il nuovo anno, ho deciso di pubblicare periodicamente tuttavia senza una cadenza precisa, i racconti contenuti nel libro, per condividere con chi avrà la pazienza di leggerli, ciò che ho provato io quando ho raccolto le testimonianze dirette raccontate da mio padre e, in parte, da mia madre.
Chi avesse fretta di vedere com’è andata a finire, ed io stesso ne sono il risultato vivente, può sempre richiedere il libro al mio indirizzo E-mail attraverso cui sarà possibile concordare le modalità della consegna/spedizione.
Auguro a tutti una buona lettura ricordando che critiche e, soprattutto, apprezzamenti saranno entrambi graditi.
La lontananza per l’amore
è tale al vento per il fuoco
spegne quello piccolo
alimenta quello grande.

* * * * * 

La prefazione di Maria Paola Ciccone

Ho conosciuto Ermanno Volterrani, consulente tecnico del ramo assicurativo, in uno degli incontri letterari organizzati dal mio gruppo, il Gruppo Internazionale di Lettura, fondato dalla scrittrice Renata Giambene nel 1977, sodalizio ancora oggi attivo e vicino particolarmente agli scrittori esordienti.
Ermanno si è presentato con una pubblicazione di tutto rispetto, targata ETS, stampata nel 2006 affiancata da un’altra opera già pronta per la pubblicazione: “Albania, racconti di un cavalleggero”.
Scrittore quasi per scherzo, come si può leggere nel titolo di un’intervista con foto a tutta pagina sul Corriere di Livorno del gennaio 2008, il nostro autore racconta di essere passato dall’amore per la fotografia alla passione per la scrittura.
Spiega Ermanno: – Man mano che i miei ricordi andavano avanti li scrivevo e poi li mettevo in una cartella anonima (sul personal computer condiviso con il figlio n.d.r.) proprio perché a nessuno venisse la tentazione di andarla a vedere, non perché mi vergognassi ma perché ero veramente geloso del mio lavoro-
Così nasce “da giugno a settembre”, l’opera prima, che racconta l’estate ed il primo amore di un adolescente in cui, tra elementi autobiografici e dettagli descrittivi, persino ridondanti, emerge con evidenza indiscussa l’occhio attento del fotografo passato alla scrittura. Ma emerge anche una purezza di sentimenti e di valori che fanno da sfondo alla tenera cotta fra due adolescenti. Valori d’altri tempi insomma e non puoi non chiederti come abbia potuto Ermanno restare così incontaminato negli anni, per riuscire a dare la sensazione di aver scritto il racconto, ambientato all’inizio degli anni Settanta, in tempo reale anziché dopo oltre 30 anni. Forse il segreto è nell’effetto scrigno che appartiene agli scrittori più autentici, vale a dire un incameramento inconsapevole di immagini e ricordi miscelati con emozione e riflessioni, che preservano la memoria dalle possibili incrostazioni del tempo, lasciando intatta, quando riaffiora, la forza descrittiva del ricordo che si traduce in parola narrante netta ed incisiva.
Sempre sull’onda del ricordo, questa volta dei racconti in famiglia intorno al focolare, ma con una sintesi espressiva diversa e più agile, si colloca questa seconda opera “Albania, racconti di un cavalleggero”, sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Il contenuto è stato elaborato  efficacemente da Pier Antonio Pardi e vale la pena proporla:
- la storia che ci racconta Ermanno è quella di suo padre Antonio (Tonino) e degli anni che questi ha trascorso in Albania, durante il secondo conflitto mondiale. E’ una sorta di narrazione quasi diaristica, biografica in cui la vicenda del padre viene narrata a tutto tondo: le origini contadine, i sani legami con la terra, l’amore per Giorgina, all’inizio contrastato, poi finalmente appagato, le amicizie profonde nate sul fronte (Osvaldo e Ardeno), il rapporto quasi simbiotico con il cavallo Alone e infine la fame, la paura, dopo l’8 settembre, di essere scoperti e deportati in un campo di concentramento, fino al lieto fine e al rimpatrio.-
Ermanno dà voce all’amore di Tonino e Giorgina, i suoi genitori. Storia di fedeltà e di onestà di sentimenti davvero d’altri tempi, con una partecipazione attenta alla documentazione trovata nei cassetti di casa: le vecchie foto con dedica in particolare, che non possono sfuggire all’appassionato di fotografia. Con il suo stile linguistico così poco connotato, in un italiano  corretto e scorrevole, il nostro narratore ci trasmette la dimensione umana del soldato cavalleggero Antonio, nei suoi punti di forza e, ancor meglio, in quelli di debolezza, senza enfasi retoriche né sentimentalismi scivolosi.
Non è un racconto di eroismi ma piuttosto di cronaca quotidiana in un contesto che oggi sembra quasi surreale, in cui la guerra è sullo sfondo e sembra improbabile. Emergono invece i dettagli narrativi tipici dei racconti del focolare, del vissuto emozionale del padre ancora molto giovane ed inesperto. Si coglie bene il clima relazionale ed umano del campo militare, tra piccoli piaceri, sacrifici, illusioni, delusioni e speranze. La narrazione, nel suo complesso, dà al lettore l’opportunità di mille riflessioni, non solo umane ma anche storiche e culturali, lascia spazio ad una propria lettura personale, poiché il ritmo non è pressante, non invade la sfera di chi legge ma porge i fatti con gradevole, naturale maestria, che favorisce la rilettura in itinere.
Maria Paola Ciccone
Presidente del Gruppo Internazionale di Lettura

Pisa