Il sole stava per tramontare, quando alla
fine del febbraio del 1941, giungemmo in una delle zone montane scelte per un
campo invernale, forse sulle pendici delle alpi Pennine (da Voghera ci eravamo
diretti a nord transitando per il paese di Oleggio).
La neve era abbondante, nonostante non ci
trovassimo in montagna, forse più in alta collina, a giudicare dalla vegetazione
e dalle lievi pendenze affrontate nel raggiungere il sito.
Nella penombra del precoce tramonto
invernale, si scorgeva una grande distesa innevata, al riparo di un crinale
roccioso, quasi completamente circondata da abeti ed altra vegetazione
pedemontana. Solo il limite sud, a giudicare dalla posizione del sole al
tramonto, era completamente sgombro e sconfinava in un evidente pendio: quella
che oggi si potrebbe chiamare una pista per sciare. La delimitazione della
discesa, sui lati, era garantita dalla bassa vegetazione boschiva, laddove, più
in basso, la pendenza diminuiva sensibilmente trasformandosi in un ampio
pianoro.
Allestimmo in fretta le tende militari
cinque per cinque, per l’appunto adibite ad ospitare cinque soldati ciascuna, e
disponemmo il cerchio dei cavalli precedentemente liberati dalle costrizioni
delle finiture. Faceva un gran freddo tuttavia l’equipaggiamento da campo si
rivelava piuttosto efficace consentendoci di affrontare agevolmente i rigori del
periodo. Le spesse coperte dal colore scuro indefinito ed il pesante pastrano
facevano in pieno il loro dovere e devo dire che anche la divisa invernale, se
della misura giusta e ben attillata, era sufficiente a mantenere il corpo ad una
temperatura sopportabile durante i quindici giorni del campo.
Una volta completato l’allestimento del
campo, ci stavamo organizzando attorno al bivacco, per la frugale cena quando il
capitano, comandante del campo, mi chiamò a gran voce:
«Cavalleggero!» Fece con voce tonante al
mio indirizzo col suo classico, arcigno modo di fare.
Il capitano era un tipo burbero, ma quello
che io definirei un falso burbero: quando chiamava a gran voce incuteva timore,
ma spesso lo scoprivamo a ridere sotto i baffi, forse compiacendosi dell’effetto
che il suo atteggiamento generava sulle nostre facce spaurite.
In quell’occasione, ed in molte altre,
corsi prontamente al suo cospetto e mi presentai sull’attenti, in osservanza al
rigore imposto dalle regole militari, sfoggiando il saluto
marziale:
«Comandi, Signor Capitano!» gridai
pronto.
«Antonio, seguimi!» Continuò, concedendomi
questa volta il beneficio del nome di battesimo, aspirando una boccata dal
sigaro Toscano che pendeva dalle sue labbra.
Io fui investivo dalla nuvoletta di fumo
azzurrognolo generata dal sigaro e lo seguii in silenzio per qualche metro, fino
al limite massimo del pendio che guardava a sud, dove trovammo posteggiato un
simpatico slittino di legno chiaro. Stupito, notai che il capitano si stava
sedendo sullo slittino in questione e lo stava rivolgendo in direzione della
discesa. Sistemato il pesante pastrano alla bell’è meglio ed impugnata la
cordicella collegata alla parte anteriore dello slittino, il capitano si tolse
il mozzicone di sigaro dalle labbra, lo spense accuratamente nella neve pressata
dagli scarponi e mi rivolse nuovamente la parola:
«Volterrani, dammi una spinta!» Ordinò,
ritornando a chiamarmi per cognome.
«Signor Capitano». Mi risentii io impettito
sull’attenti. «Io le do una spinta, ma se prende il via, chi la ferma
più?».
«Cavalleggero! T’ho detto di darmi una
spinta: è un ordine! Non vorrai contravvenire ad un ordine?».
Cosa potevo fare? Non avevo altra scelta se
non assecondare le richieste del mio capitano. A quel punto mi allontanai di un
paio di passi e, dopo una breve rincorsa, calzai bene i guanti di pelle ed
appoggiai i palmi delle mani aperte alla schiena del superiore spingendolo
violentemente verso la discesa.
Una breve esitazione ed una leggera in
traversata, poi lo slittino puntò decisamente verso la discesa innevata
prendendo via-via velocità col procedere verso valle. Nei primi metri, il
capitano dimostrò di governare agevolmente il mezzo compiendo ampie ed eleganti
curve a zig-zag assecondate dall’armonico movimento del busto, pur infagottato
nel pesante pastrano militare. Di lì a poco, tuttavia, la velocità incrementò al
punto che le curve divennero sempre meno ampie ed i movimenti del graduato
sempre meno eleganti e più goffi.
Dalla volata che aveva, e un po’ per il
crepuscolo incombente, riuscivo a malapena a scorgerlo, giù per il pendio.
Improvvisamente, forse a causa di un argine contro cui cozzò lo slittino o per
chissà quale altra ragione, scorsi il mio superbo superiore che rotolava
rovinosamente nella neve e rimbalzava a destra e a manca come un pallone
impazzito. Più tardi avrei scoperto che l’incremento della velocità dello
slittino fu tale da indurre il capitano a scovare un modo per rallentarne la
corsa. Intimorito dal pericoloso e progressivo avvicinarsi della fine del
declivio, l’ufficiale aveva pensato bene di far cambiare direzione allo slittino
che s’intraversava causando il pericoloso e spettacolare
ruzzolone.
Immobile sul colmo della discesa, non osavo
immaginare la reazione del capitano al suo ritorno al campo. Lo osservavo
risalire faticosamente la china, con lo slittino a traino ed era mia intenzione
manifestare almeno apprensione, allo scopo di attenuare l’eventuale strigliata.
Nonostante l’impedimento del cappotto e degli scarponi anfibi, mi misi a correre
giù per il pendio per andargli incontro e sollevarlo, almeno, del peso dello
slittino. Man mano che ci avvicinavamo, notavo il pastrano quasi completamente
coperto di neve e riuscivo solo ad intuire la sua faccia scura. Giunti a pochi
di passi di distanza, il Capitano si fermò, ed io feci altrettanto, scagliò lo
slittino sulla neve e si mise le mani sui fianchi osservandomi con un cipiglio
da intimorire il più spavaldo degli uomini. Pochi secondi a sopportare lo
sguardo di ghiaccio, pienamente in sintonia con l’ambiente circostante, poi,
all’improvviso, il capitano scoppiò in una fragorosa risata finendo per
coinvolgermi completamente. Ridendo, mi avviai verso di lui per raccattare lo
slittino, ma quando gli fui vicino egli si ricompose e mi apostrofò con un tono
gelido:
«Ah! Ridi pure?».
Costretto dalle circostanze, dovetti
reprimere il riso che pure era sgorgato così spontaneo. Mi caricai lo slittino
sulle spalle e m’incamminai affondando gli scarponi anfibi nella neve alta. Nel
silenzio più completo, rotto solo dal fruscio dei passi nella neve, affrontammo
il tratto più alto del declivio ed il percorso di ritorno verso il campo, col
buio che oramai si era impadronito della zona. Successivamente, nella stessa
serata, mi capitò di transitare nelle vicinanze della tenda allestita a mensa
ufficiali dove il Capitano e gli altri ufficiali del campo organizzavano le
attività per la giornata successiva, alla luce flebile dei lumi a petrolio. Pur
mantenendo la statuaria posizione, il superiore non riuscì a trattenere un
sornione sorriso ed un’accattivante smorfia del viso, assolutamente in contrasto
con l’austerità imposta dal grado elevato e dalla divisa
indossata.
Il buio non era abbastanza fitto da celare
l’inattesa seppur benevola reazione del severo
ufficiale.
Nessun commento:
Posta un commento