mercoledì 14 ottobre 2020

I pozzi di petrolio

 I pozzi di petrolio

Una delle mansioni più importanti del nostro Reggimento consisteva nel mantenimento delle linee per le comunicazioni telegrafiche e telefoniche, fondamentali per il corretto coordinamento delle azioni di guerra.

Tra le numerose escursioni, capitavamo spesso nella zona del paese di Devoli, sulle sponde del quasi omonimo fiume Devoll, la cui prerogativa era la presenza di numerosi pozzi di petrolio. Le poche scalcinate abitazioni del centro abitato, così come apparivano dal nostro punto d’osservazione, non costituivano certo un’attrattiva, ed è questo il motivo per cui nessuno di noi ha mai nemmeno messo il naso oltre i limiti dell’accampamento. Il villaggio si sviluppava, per poco più di un centinaio di metri, lungo una strada stretta e disagevole e, a detta degli operai del posto, non disponeva né di un bar né di qualsiasi altra fonte di svago o intrattenimento. Gli operai esprimevano il comune malcontento di trovarsi lontani da casa, sperduti in mezzo ai monti e senza il minimo svago che non fosse una disperata partita a carte tra colleghi. Senza contare il tangibile rischio che il campo potesse diventare oggetto di bombardamenti mirati a smantellare gl’impianti estrattivi. 

Una volta ingaggiati per la missione, partivamo da Elbassan la mattina, di buon ora, al termine di una sommaria adunata e la marcia di avvicinamento alla zona in questione c’impegnava per tutto il giorno. Di solito, specialmente in inverno, giungevamo sul posto che già era buio pesto. Il nostro plotone, in quella zona, prendeva alloggio in un enorme capannone di lamiera col tetto in eternit, in precedenza utilizzato come magazzino dalle ditte italiane che avevano in appalto lo sfruttamento dei pozzi della zona. L’ampiezza del locale consentiva agevolmente l’alloggio sia alla truppa sia alle cavalcature di un plotone intero, tanta era la forza distaccata ogni volta per missioni del genere. Tanto per non perdere il vizio, dormivamo per terra, adagiati solo sulla copertina da campo in coppia con la fredda canna dell’inseparabile moschetto, sempre col colpo innescato. Di brande, neanche l’ombra, ma almeno avevamo un tetto sopra la testa.

Solitamente ci trattenevamo nella zona solo pochi giorni, giusto il tempo di riallacciare le linee telefoniche interrotte dai frequenti sabotaggi della compagine partigiana e riparare eventuali guasti alla centralina di distribuzione che si trovava in una torretta sperduta nel bosco vicino. Spesso le opere di ripristino si dimostravano vane in quanto, al ritorno al campo di Elbassan, capitava che le linee fossero di nuovo interrotte, magari in un punto diverso dal precedente, cosicché un nuovo plotone partiva per ricominciare quella specie di circolo vizioso. 

Nelle vicinanze del capannone in cui alloggiavamo durante quelle escursioni, in una baracca dall’apparenza neanche troppo stabile, trovava posto un’enorme pompa alimentata da un potente motore a testa calda, che comandava una decina di torri dislocate nel raggio di un centinaio di metri. Attraverso robusti e lunghi cavi d’acciaio adagiati sulla nuda terra, la centrale trasmetteva ai terminali un movimento rotatorio costante che, sul posto, un sistema di rinvii, pulegge ed enormi bronzine trasformava nel classico movimento oscillante delle torri estrattive, i terminali veri e propri della pompa. Scorri oggi, scorri domani, i cavi avevano provocato delle profonde scanalature che il tempo aveva poi ricoperto con terreno fresco sì da nasconderli alla vista ed al contatto diretto. La ragnatela di collegamenti tra la sala-controllo ed i tralicci era percepibile attraverso il tremolio che il movimento continuo dei cavi trasmetteva al suolo soprastante. Sembrava di camminare su un terreno perennemente sollecitato, senza soluzione di continuità, da lievi scosse telluriche il cui epicentro era localizzato laddove i cavi affioravano in superficie. Il tremolio della zona ed il rumore dello sfregamento delle funi d’acciaio, oltre all’intenso e costante rombo del propulsore diesel, erano facilmente percepibili perfino all’interno del capannone generando non pochi disagi anche durante le scarse ore di riposo notturno. 

Nelle vicinanze del capannone, poi, ricordo una trivella, anch’essa alimentata da un generoso motore a nafta, che girava lentissimamente tuttavia senza tregua perforando il terreno alla ricerca di un’ulteriore accesso al giacimento di petrolio sottostante. Ad ogni missione del genere a cui ho partecipato, poche a dire il vero, la trivella era sempre lì che bucava. Mi era capitato di assistere al lavoro degli operai che assemblavano nuovi spezzoni di tubo, man mano che la profondità del terreno aumentava, tuttavia avevo l’impressione che la perforatrice dovesse trapassare il mondo da parte a parte, tanta era la costanza e l’accanimento dell’operazione, senza tuttavia mostrare risultati concreti.

Nei primi mesi del ’43, finalmente, il mio plotone ed io assistemmo al coronamento degli sforzi della squadra di operai italiani addetti alla trivella: un pomeriggio, mentre all’interno del capannone strigliavo il cavallo di ritorno da una perlustrazione nel bosco, un boato sordo ma potente scosse le pareti della struttura mettendomi in apprensione. Assicurato Alone al suo posto, mi precipita fuori di corsa giusto in tempo per vedere il primo getto di petrolio che, con un sibilo assordante, scaturiva dal foro provocato dalla trivella. Gli operai, investiti dallo zampillo caldissimo, tuttavia sufficientemente raffreddato nel viaggio di ricaduta a terra, saltavano di soddisfazione in preda ad uno slancio d’euforia collettiva generato dal compimento dell’operazione. Molti miei commilitoni che si aggiravano ignari nelle vicinanze dovettero subire, loro malgrado, un trattamento simile e le loro divise furono inzaccherate dalla ricaduta di quel fluido primordiale. La pressione del sottosuolo lanciava il getto in cielo, dritto come un cero, ad un’altezza di qualche decina di metri finché ricadeva come in un’allegra corvina fontana.

Pioveva catrame da tutte le parti. La baracca al cui interno si trovava il propulsore della trivella era completamente ricoperta dal fluido nero e lo spiovente del tetto grondava di gocce dense che quasi si solidificavano a contatto col terreno. Tutto intorno al buco nel terreno si formò rapidamente un laghetto fumante che puzzava di uova marce lontano un miglio. La pozza, tuttavia, man mano che si raffreddava, assumeva sempre di più i connotati di uno specchio nero, lucido e vischioso al punto da intrappolare chiunque vi si fosse avventurato. Ritrovavamo gocce di oro nero perfino sul pelo dei cavalli e dovevamo penare non poco, per rimuoverlo a dovere senza provocare irritazione ai fedeli quadrupedi compagni. Nei giorni successivi all’apertura del pozzo, prima che gli addetti riuscissero a domare definitivamente il getto convogliandolo nelle tubazioni e da lì al deposito poco distante, cercavamo continuamente di eludere le untuose gocce del caldo zampillo, anche se spesso, un po’ per il vento, un po’ per distrazione, era praticamente inevitabile restarne coinvolti. Alla sera era facile trovare le nostre divise e, soprattutto, le bustine punteggiate da gocce nere dalla consistenza quasi solida in conseguenza al raffreddamento del petrolio.

 

Nessun commento:

Posta un commento