venerdì 9 marzo 2012

missione "guerra"


Qualche giorno prima della Pasqua del 1942, dopo una quindicina di mesi di servizio militare, partimmo da Voghera alla volta di Bari da dove avremmo dovuto essere traghettati fino in seconda guerra mondiale, albania, adriatico, italia, monferratoAlbania. Ardeno ed Osvaldo avrebbero dovuto essere congedati già da qualche mese tuttavia il doloroso conflitto in corso aveva definitivamente snaturato i loro piani.
L’intento della missione, per quanto potevamo saperne all’epoca, ma soprattutto alla luce degli elementi emersi in seguito, era quello di recuperare la disastrosa campagna di Grecia dalla quale era immediatamente scaturita la guerriglia in Albania. Probabilmente all’epoca non conoscevamo neanche bene lo scopo ed il significato di quella stupida guerra ed in cuor nostro ben poco ce ne importava, tuttavia la sensazione di essere investiti del ruolo di liberatori o, per lo meno, di coloro che avrebbero aggiustato le cose fino ad allora cadute a precipizio ci rendeva piuttosto fieri. L’incoscienza della giovane età fece il resto e la notizia, dopo un iniziale momento di sconforto, fu presa con una certa qual eccitazione da gran parte dei miei commilitoni. Dal canto mio, non provai una particolare euforia, ma dovetti far buon viso a cattivo gioco, travolto dall’entusiasmo del resto della compagine.
Il lavoro di preparazione dei materiali da campo e della successiva caricazione sulla tradotta che ci avrebbe condotto all’estremo sudest della penisola ci assorbì per diversi giorni. Stivammo le cucine da campo, le nostre brande, quelle degli ufficiali, le armi, le derrate alimentari e tutto quanto il materiale necessario all’allestimento di un campo militare all’interno dei vagoni merci e sistemammo accuratamente le nostre cavalcature nei carri bestiame. Ognuno di noi trattava il proprio cavallo con la massima cura ed anche prima di partire provvedemmo ad una strigliata rilassante affinché gli animali, dal carattere nervoso di per sé, affrontassero il viaggio senza troppo stress.
Alla partenza, io salii su uno dei primi vagoni del convoglio e quando tutto fu pronto, il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” partì alla volta di Bari. Tra gli zaini e le borse da campo, sparpagliati sul pavimento, dopo aver riempito le insufficienti reti portabagagli sopra le nostre teste, il vagone era pieno in ogni ordine di posti e le inospitali panche di legno misero a dura prova i nostri giovani fondoschiena. Le sconquassate balestre degli assali del vagone fecero il resto e la sosta alla stazione di Bologna fu accolta come una liberazione.
Sfruttammo l’occasione per sgranchire le gambe rattrappite dalla forzata posizione seduta sulle disagevoli panche tuttavia la scarsità di tempo non ci consentì di verificare le condizioni delle nostre cavalcature. Poche ore ed uno squillo insistente di tromba c’informò che la tradotta era in procinto di riprendere il viaggio: riprendemmo i nostri posti e ripartimmo con uno scossone alla volta del capoluogo pugliese.
Arrivammo a Bari l’antivigilia di Pasqua ed allestimmo il campo in prossimità del porto, in attesa dell’imbarco per l’Albania. Giovani e sprovveduti, eravamo ancora inconsapevoli delle sorprese che il destino aveva in serbo per noi al di là del mare Adriatico.
Rimanemmo pochi giorni a Bari ed uno dei rari ricordi che ho ancora impresso nella mente, riguarda proprio la distribuzione del rancio nel giorno della vigilia di Pasqua.
In riga al rancio, distribuiti su file tre per tre, ci aspettavamo un trattamento speciale, vista la ricorrenza e, dal fondo della coda, sbirciavamo ansiosi in direzione della grande marmitta sul bancone dirimpetto all’ampio tendone sotto al quale era stata allestita la cucina da campo. Passo dopo passo, la fila scorreva abbastanza agevolmente allorché giunse il mio turno: mi pareva che distribuissero del brodo tuttavia non riuscivo a comprendere con che cosa avrebbero potuto cucinarlo, vista la carenza di carne di manzo o gallinacei adatti allo scopo.
La gavetta protesa ed il cucchiaio in mano, il militare addetto alla distribuzione del rancio si limitò a servirci tre romaiolate di qualcosa di quasi trasparente e molto simile all’acqua. Stupito e soprattutto abbattuto, gettai uno sguardo all’interno del contenitore di latta dove scorsi rarissime scaglie di una galletta che roteavano all’infinito nel brodo quasi incolore. Il vorticoso mulinello generato dal liquido appena rovesciato nella gavetta cilindrica, aveva un effetto quasi ipnotico al punto che non mi resi quasi conto, lì per lì, della scarsità e dell’assoluta inconsistenza della porzione. Mi scossi solo allorché, dopo aver mangiato le scaglie della rinsecchita galletta ed aver bevuto lo squallido brodo della gavetta, mi presentai a ritirare la razione di quella che avrebbe dovuto rappresentare la seconda portata del luculliano pranzo della vigilia di Pasqua. Avevamo tutti una fame da lupi, vista la giovane età e la scarsità di cibo di quel periodo, ed era giustificata la speranza che il companatico fosse più consistente di quanto non lo era stato il primo piatto. Prendemmo la definitiva batosta quando, da sotto il bancone, il militare estrasse una mela che definire striminzita è quasi un complimento. Una mela zuccherina, dolce quanto vogliamo tuttavia quantitativamente non conforme alle nostre esigenze nutrizionali, assunse i connotati del più tradizionale arrosto d’agnello, ormai per noi solo un lontano ricordo.
Altro che colombe, torte pasqualine e spumante…
Il giorno successivo iniziarono i preparativi per l’imbarco di tutto l’equipaggiamento militare sulla nave “Italia”, una specie di grossa chiatta, tipo quei mezzi da sbarco che si vedono nei film di guerra americani. All’alba di qualche giorno dopo Pasqua, allorché le operazioni d’imbarco furono completate ed i cavalli furono saldamente assicurati a bordo, il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” salpò alla volta della sponda Albanese del mare Adriatico. La M/N “Italia” era la seconda di un convoglio di tre navi con le prore dirette alla volta di Durazzo.
Quando alle nostre spalle erano già da tempo scomparse le sagome dei rilievi Italiani e, nei bagliori delle prime luci del mattino, si cominciavano a delineare le ombre delle montagne Albanesi, udimmo le grida concitate del marinaio di guardia subito seguite da prolungati e ritmici sibili della sirena dell’allarme. Gli ufficiali superiori ci suggerirono di liberarci dalla zavorra degli scarponi e dei gambali, mentre i sottufficiali distribuivano i salvagente che noi indossammo prontamente e senza battere ciglio. Sulla coperta di quella nave, sembrava il giorno del giudizio, tanta era la concitazione per l’improvvisa situazione d’emergenza. Facendo affidamento sulle voci insistenti e preoccupanti che circolavano tra le fila, gli strumenti di bordo avevano individuato la presenza di uno o più sottomarini nemici, non saprei dire di che nazionalità, ma, a dire la verità, noi non ci siamo mai visivamente resi conto di niente del genere. Un’oretta dopo l’allarme, passata ad elaborare congetture su un eventuale attacco da parte dei sottomarini in questione, ci rendemmo conto del concreto pericolo che avevamo appena passato, scorgendo tre cacciatorpediniere battenti bandiera italiana, schierati a protezione del convoglio: due di essi ci affiancavano rispettivamente a babordo e tribordo laddove il terzo era un po’ più distante, a proravia. L’apparizione della scorta risollevò gli animi ansiosi tuttavia confermò la tangibile pericolosità della situazione nelle acque dell’Adriatico.

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