domenica 28 ottobre 2012

Una comoda fastidiosa branda


La baracca della selleria non era tanto male, se confrontata con gli altri alloggi. Era piuttosto grande ed arredata con numerosi puntelli, disposti su due file parallele e sovrapposte, sui quali riponevamo le selle a riposo. Il mio compito era quello di controllare le condizioni di selle, collari ed altri finimenti in cuoio ed branda, albania, cavalleggero, arrangiamenti, esercito, seconda guerra mondialeeventualmente ripararli. I collari servivano per legare i cavalli a riposo: erano più confortevoli e certamente meno pericolosi e stressanti delle briglie, dal canto loro insostituibili durante la conduzione degli animali al troppo o al galoppo. Saltuariamente, i compagni d’armi mi affidavano la riparazione di stivali anfibi o scarponcelli “intermedi” mentre capitavano più raramente le scarpe più raffinate, da divisa drop, che appartenevano esclusivamente al corredo degli ufficiali. In un angolo avevo sistemato il mio banchetto da lavoro, con tutte le lesine, i martelli a testa piatta, gli spaghi, i grossi aghi ed i vari supporti su cui appoggiare gli accessori durante la riparazione. I cassetti, suddivisi in piccoli scomparti, erano sempre pieni di semenze di ogni dimensione in relazione al rispettivo utilizzo.
Ogni mattina facevo il giro della scuderia, se scuderia si può chiamare lo spazio all’aperto dedicato ai cavalli in un accampamento militare, ed incontravo gli addetti alla raccolta delle fiande (gli escrementi solidi mischiati ad erba parzialmente digerita), abbondantemente prodotte dai numerosi cavalli: passavano dietro ai cavalli, raccattavano le fiande con le mani e le riponevano in un capace cesto che, una volta riempito, veniva svuotato in un luogo, lontano dal campo, adibito a discarica. Non era permesso avvicinarsi ai cavalli con pale, forche o qualsiasi altro strumento che rischiasse anche minimamente di mettere a repentaglio l’incolumità dell’animale. Vista la sua natura nervosa, l’equino avrebbe potuto scartare in qualsiasi momento, soprattutto se qualcuno gli gironzolava intorno, e non era concepibile che corresse neanche il minimo rischio di subire una seppur lieve ferita.
Mi ricordo che eravamo ancora a Voghera allorché uno degli addetti fu trovato in prossimità delle terga degli animali a raccogliere le fiande con l’ausilio di una tavoletta di legno. Che pericolo avrebbe potuto costituire una tavoletta di legno per i garretti dell’animale non mi è dato di sapere, fatto sta che il caporale di giornata punì il malcapitato che fu consegnato per cinque giorni. È naia ed ogni scusa è buona per creare delle difficoltà, soprattutto alle reclute, da parte dei sottufficiali immediatamente superiori. Ho visto punire più soldati dai caporali che da qualsiasi altro graduato, ufficiale o sottufficiale che fosse. L’acquisizione del grado, seppur infimo, sembrava autorizzasse il militare ad abusare dell’autorità conferitagli e tale abuso, in genere, scemava con l’aumentare d’importanza del grado stesso.
Al campo in Albania, come già in caserma a Voghera, la rimozione delle fiande faceva parte dell’ordine dei servizi saltuari. Al termine di una di quelle giornate, le mani erano verdi come i residui d’erba parzialmente digerita che avvolgevano gli escrementi e non esisteva detersivo in grado di lavarle del tutto. Ho visto soldati con le mani verdognole anche tre giorni dopo aver svolto il servizio di rimozione fiande. Una volta, a Voghera, da recluta, anch’io ho dovuto svolgere l’odiata mansione, ma fortunatamente soltanto una volta.
Nel mio giro di ricognizione in scuderia controllavo le condizioni dei collari e, se ne trovavo uno danneggiato, lo sostituivo e lo portavo in selleria per ripararlo.
Da solo, in selleria, ero in grado di mantenere in ordine selle, collari e coperte da sella per tutte le cavalcature del mio squadrone di appartenenza. Non avevo l’obbligo né di adunate e tanto meno di contrappelli.
Già a Voghera ero esentato da tutti i servizi e spesso, dalla finestra del mio laboratorio al terzo piano, al calduccio di una stufa rovente, vedevo il mio squadrone che rientrava dalle esercitazioni, alle quali partecipavo solo saltuariamente: i cavalli avevano i ghiaccioli ai baffi, dal freddo che faceva.
Essendo da solo, nella baracca della selleria, mi riproposi di adottare una soluzione alternativa al giaciglio di semplici coperte adagiate sulla nuda e cruda terra: mi sarei costruito una rapazzola, ovvero una specie di branda, che almeno mi mantenesse sollevato dal suolo. Raccolsi un po’ di legna in giro, la ripulii adeguatamente e costruii quattro forcelle che piazzai agli angoli del costruendo giaciglio. Piazzai un robusto bastone di circa un metro per ogni coppia di forcelle e, tra i due bastoni trasversali, disposi sette o otto verghe longitudinali, un po’ più sottili e di conseguenza più elastiche. Robusti correggioli di cuoio tenevano saldamente uniti tra loro i vari pezzi della branda. La struttura del mio nuovo giaciglio era completata, ne testai la robustezza sedendomi a più riprese e mi compiacqui della buona riuscita del lavoro svolto. Era sufficiente, a quel punto, coprire il piano di legna con le coperte bianche da sella, che ovviamente non mi mancavano, e la mia cuccetta era pronta. Le coperte bianche in questione erano utilizzate per coprire il dorso del cavallo, allo scopo di attenuare il fastidio generato dal cuoio e dalle cuciture di cui era costituita la sella: centosettanta cavalli stavano a significare altrettante selle: hai voglia di coperte!
Per qualche notte ritrovai il piacere di dormire quasi in un letto autentico tuttavia, ben presto, si rivelò un benessere, purtroppo, effimero. Dopo una settimanetta di notti trascorse a dormire come un papa, o per lo meno mi sentivo tale, in rapporto agli altri che dormivano sulla cruda terra, cominciai ad accusare prurito ad un braccio, poi ad una gamba, alla schiena insomma, dopo un paio di notti passate a grattarmi decisi di accertare il motivo di tutto quel fastidio. Disfeci la branda e la sorpresa fu tale che mi vidi costretto a rinunciare al beneficio del comodo giaciglio: migliaia di uova che le cimici avevano deposto nello spessore del legno, invisibili al momento della costruzione della branda, si erano schiuse e le minuscole larve ed alcuni insetti avevano infestato le coperte, il legno stesso ed i miei vestiti. Fui costretto, mio malgrado, ad abbandonare e distruggere il mio regale giaciglio, la rapazzola, per ritornare alla vecchia abitudine di dormire per terra, pur usufruendo ugualmente della comodità delle numerose soffici coperte da sella sovrapposte.

domenica 1 luglio 2012


Nei dintorni di Elbassan, il campo militare era ben organizzato, tanto da dare l’impressione di una vera e propria caserma viaggiante. All’arrivo, dopo un elaborato guado del fiume Shkumbini, al quale io non partecipai a causa del ricovero dovuto agli orecchioni, il reggimento si trovò in un campo in parte allestito, per lo meno nelle strutture principali quali il reparto comando, i tendoni della cucina e della mensa, la fureria e tutto il resto. Per quello che posso ricordare, la prima impressione al mio arrivo al campo, qualche giorno dopo il resto della compagnia, fu quella di aver sostituito un reparto che già aveva dato il suo contributo nella campagna d’Albania. I miei compagni mi informarono che l’allestimento delle tende per gli alloggi personali, la cosa più urgente da fare dopo l’arrivo, fu meno impegnativa delle precedenti in quanto le aree erano già state assegnate ed organizzate dai predecessori.ardeno, albania, seconda guerra mondiale
Col passare dei giorni, venimmo a sapere che il campo era stato allestito fin dall’anno prima, o forse da quello ancora precedente, allorché il primo contingente di truppe italiane si era installato nella zona.
In condizioni per così dire “normali”, centinaia di cavalleggeri ed altrettante cavalcature si muovevano come formiche all’interno dell’accampamento. L’equipaggiamento tecnico a supporto del campo era costituito da qualche camionetta, alcune scassate motociclette, pochi mezzi pesanti e, soprattutto, una moltitudine di fedeli muli, un aiuto indispensabile nel trasportare i pesi più onerosi durante gli spostamenti.
Le giornate passavano lentissime ma inesorabili e le missioni d’appoggio alle truppe distaccate sul massiccio del Tomorit, verso il confine con la Grecia settentrionale o quello con la parte più a sud-ovest della Jugoslavia (quella che oggi chiamiamo Macedonia) occupavano la maggior parte del nostro tempo. Negl’intervalli tra una missione e l’altra, l’impegno preponderante consisteva nel preparare gli approvvigionamenti, alimentari e militari, per le truppe più vicine di noi al fronte, anche se non si può parlare di fronte vero e proprio, nella campagna d’Albania. Giornalmente, il servizio di ricognizione impegnava una cinquantina di soldati e prevedeva ronde nei dintorni dell’accampamento allo scopo di verificare che nessuno dei gruppi partigiani albanesi si preparasse a qualche sortita che mettesse a repentaglio le sorti del Reggimento. Quando partivamo per le ricognizioni, la cui durata variava da un paio di giorni ad una settimana, in relazione alla lunghezza ed all’asperità del percorso assegnato, il cavallo assumeva un’importanza fondamentale nel trasporto degli approvvigionamenti personali e del materiale necessario ad allestire un improvvisato campo notturno. Il fedele Alone mi accompagnava sempre nelle rare occasioni in cui ho dovuto partecipare a missioni del genere. Il mio grande cavallo nero era instancabile ed estremamente affidabile al limite, non trascurabile, di assumere il ruolo di fedele confidente, durante i non rari momenti di sconforto e malinconia. Nel corso delle solitarie ronde notturne, spesso mi trovavo a parlare col cavallo ormai assunto al ruolo di fedele, inseparabile amico. Ho decisamente confidato più paure, trepidazioni, ansie e segreti ad Alone in quei lunghi mesi, che a mia madre nell’intervallo di tempo in cui ho condiviso la mia esistenza con lei!
Anche nei momenti di riposo ed apparentemente sereni, la cavalcatura assumeva, per ognuno di noi, l’amico affezionato, il muto confidente cui riporre ogni cruccio, capace di rincuorarti con un semplice sbuffo dalle froge umide, uno scatto deciso della testa o lo scalpiccio dello zoccolo sulla nuda terra. Al pari dell’amico del cuore, infatti, era sufficiente un’energica strigliata od una semplice carezza sul muso ossuto per ripagarlo dell’affetto concesso. Alone è il ricordo più rassicurante di quell’esperienza militare, a Voghera prima ed ancor di più al di là dell’Adriatico.
Al campo di Elbassan, tanto per cambiare, mi ero ricavato un angolo d’intimità personale all’interno del tendone allestito a selleria ma l’impegno delle ricognizioni o, peggio, quello di rifornire le truppe o di riparare le connessioni telegrafiche e telefoniche coinvolgeva inevitabilmente anche me. Raramente capitavano missioni di collegamento con altri campi militari sparpagliati per l’Albania.
Un giorno dell’estate del quarantadue, il fedele compagno Ardeno, fu convocato dal plotone comando che gli affidò un messaggio urgente da consegnare ad un contingente dell’Esercito Italiano distaccato nel nord dell’Albania, a diversi chilometri dal nostro campo. Allo scopo di risolvere in fretta la missione, gli fu affidata una motocicletta, una Moto Guzzi dal colore beige e piuttosto sconquassata, equipaggiata con carrozzetta per il passeggero a seguito. Prima della partenza, Ardeno ritenne giustamente che la carrozzetta, di per sé inutile alla missione, sarebbe stata d’intralcio durante il tortuoso tragitto ai piedi delle montagne e chiese perciò al comando l’autorizzazione a rimuoverla. Mi unii a lui e l’operazione c’impegnò per un paio d’ore, ma il risultato fu soddisfacente: la Guzzi aveva assunto un assetto più filante ed assolutamente più maneggevole al punto da indurre Ardeno a sorridere, al pensiero di utilizzarla per la missione che lo avrebbe impegnato nei giorni successivi. Con le mani ancora sporche di unto, Ardeno impugnò il manubrio ed assestò una potente pedalata: dalle marmitte arrugginite scaturì uno sbuffo di fumo denso ed il rombo corposo del propulsore monocilindrico colpì le nostre orecchie. Il grande volano dalla corona cromata girava ritmicamente ad ogni colpo di acceleratore assecondando gli scoppi regolari del propulsore.
In tempi di pace, dalle nostre parti, farsi vedere in giro con una moto di tale portata ci avrebbe dato una soddisfazione senza pari, che in parte si manifestò in quello spontaneo compiacimento.
Ardeno partì per la missione all’alba di uno dei primi giorni di luglio e sarebbe dovuto rientrare al campo di lì ad una settimana. La tortuosità del percorso, tuttavia, rallentò la marcia dell’amico che non si fece vivo per i successivi dieci giorni facendoci, tra l’altro, temere che gli fosse capitato qualcosa di spiacevole.
Al ritorno Ardeno, dopo aver consegnato la motocicletta al reparto motorizzato ed il messaggio di risposta al plotone comando, venne a trovarmi in selleria e, tra gli altri, mi raccontò di essere stato vittima di un episodio dal quale si era brillantemente tratto d’impaccio.
Un paio di giorni prima, percorrendo una strada dissestata in mezzo ad una distesa di campi da poco mietuti, si era accorto che lo pneumatico anteriore della moto era forato. Percorsi pochi chilometri con la motocicletta che sbandava pericolosamente, si era trovato nella necessità di porre rimedio all’inconveniente. Privo di qualsiasi mezzo che gli consentisse di riparare lo pneumatico forato, un’idea si faceva lentamente strada nei meandri del suo cervello vulcanico.
Mentre raccontava, aveva ancora la faccia sporca di fuliggine mista a polvere e soltanto gli occhi erano circondati da un alone apparentemente pulito, essendo stati sufficientemente protetti dagli occhiali allacciati, sulla nuca, da una robusta fascia di cuoio ed una fibbia d’ottone. La maschera bianca, in netto contrasto col resto della faccia e coi capelli scarruffati, gli conferiva un aspetto davvero buffo cosicché il racconto assunse tratti al limite del grottesco.
«Ho appoggiato la Guzzi all’argine di un fossetto che separava la strada dal campo e, con la baionetta, ho fatto un taglio di quattro o cinque centimetri sulla sommità del battistrada della gomma forata.» Raccontava eccitato «Poi ho riempito la gomma della paglia che ho trovato in abbondanza sul campo da poco mietuto. Vista l’impossibilità di riempire del tutto lo pneumatico dall’angusta apertura praticata sul battistrada, ho fatto altri due tagli equidistanti ed ho continuato a riempire finché ho potuto, ed eccomi qua!» concluse compiaciuto.
«Che ti hanno detto, quando hai riconsegnato la Guzzi?» gli domandai sorridendo per la stramberia, credendo a stento al racconto dell’amico pur confidando nella sua riconosciuta affidabilità.
«Inizialmente i meccanici mi hanno preso in giro. Ridevano. Capirai, vedersi arrivare in officina la moto con ciuffi di paglia che spuntano dal cerchione, non è cosa da tutti i giorni! Poi, quando ho raccontato l’episodio, hanno finito per complimentarsi con me per la brillante trovata».
Come si dice: la necessità aguzza l’ingegno ed Ardeno aveva messo a frutto l’estrema duttilità del suo genio anche in quella situazione così precaria.

domenica 13 maggio 2012

Durazzo-Tirana-Elbassan


Approdammo sulla spiaggia di Durazzo attorno a mezzogiorno ed il resto della giornata fu insufficiente a completare le complicate operazioni di sbarco attraverso la rampa di poppa del nostro mezzo, la motonave “Italia”. Solo il mio squadrone era composto di circa 170 unità e tenendo in albania,seconda guerra mondiale,antonio volterraniconsiderazione che il Reggimento era costituito, in tutto, da tre squadroni completi, due incompleti ed il plotone comando, ci si può facilmente rendere conto della complessità delle operazioni di sbarco. In tutto sbarcammo in più di seicento e quasi altrettanti animali. Per prima cosa, stendemmo una ragnatela di cavi tra i rami più robusti delle piante, in maggior parte tamerici, che coronavano la parte più interna della spiaggia. Una volta assicurati i cavalli, allestimmo in fretta un campo di tende e baracche sufficienti ad ospitare tutto il reggimento.
Io alloggiavo, da solo, nell’ampia baracca allestita a selleria e, come i miei colleghi, dormivo sulla copertina leggera del corredo militare, a diretto contatto con la sabbia sottostante. Durante la notte, pressoché insonne, un grave senso di spossatezza mi assalì progressivamente e, al segnale di sveglia del trombettiere del Reggimento, mi resi presto conto che qualcosa non andava per il verso giusto. Riuscii a stento a mettermi a sedere che tutta la baracca, gli attrezzi e le selle, presero a girare vorticosamente, costringendomi, mio malgrado, a coricarmi di nuovo, in preda ad una febbre da cavallo, tanto per rimanere in tema. Qualche minuto più tardi, fui costretto a prendere il coraggio a quattro mani per non incorrere in qualche punizione dovuta all’assenza dall’adunata mattutina e provai ad alzarmi in piedi: alla bell’è meglio, riuscii a rassettare la divisa, a calzare gli scarponi anfibi e trascinarmi fuori dalla baracca. Traballavo sulle gambe, instabile come un infante ai suoi primi incerti passi verso la vita. Oltrepassato il limite della baracca, sotto gli occhi di un ufficiale che passava di lì per recarsi nella zona dove si svolgeva l’adunata, stramazzai al suolo sulla sabbia fredda. Il capitano mi prestò aiuto e, vedendomi rosso in faccia, con le guance gonfie come un criceto che abbia mangiato a sazietà, mi accompagnò all’infermeria del campo dove l’ufficiale medico mi sottopose ad una visita completa.
«Parotite acuta!» sentenziò il graduato.
La mia ignoranza in materia medica, m’impedì di comprendere subito il significato della diagnosi del dottore il quale, notando la mia faccia perplessa, ribadì:
«Orecchioni! Cavalleggero Volterrani, hai preso gli orecchioni ed andrai a curarti presso l’ospedale militare di Tirana». Concluse.
Sul lettino dell’infermeria, attesi per un paio d’ore l’arrivo di un mezzo che mi trasferisse all’ospedale finché un commilitone del plotone comando, riconoscibile da una leggera diversità delle mostrine appuntate al colletto del giubbino, in compagnia dell’ufficiale medico, mi prese sottobraccio e mi accompagnò fuori dove ci attendeva un camion militare. Tremante e spossato per la febbre alta, salii a fatica sulla cabina del camion, mi sedetti al posto del passeggero e, come in trance, subii passivamente la trentina di chilometri del trasferimento dal campo all’ospedale militare.
All’arrivo al nosocomio di Tirana, il militare accompagnatore mi consegnò nelle mani di un tipo che aveva tutto l’aspetto, ma certamente non il modo di comportarsi, dell’infermiere il quale mi accompagnò in un ufficio dove altri militari italiani registrarono le mie generalità ed il corpo d’appartenenza. Poi fui condotto in una specie di spogliatoio dove smisi la divisa militare ed indossai una cappa bianca, allacciata sulle spalle e sul dietro, che mi copriva fin sotto le ginocchia. L’infermiere introdusse a forza la mia divisa in un piccolo sacco, appose un cartellino con le mie generalità, lo ripose in un angusto stipetto e poi mi fece strada lungo un paio di lunghi corridoi. Infine giungemmo in un’ampia camerata, dove una trentina di persone, che indossavano il mio stesso abbigliamento, gironzolavano o stavano coricate sui comodi letti.
Presi posto in uno dei pochi letti vuoti e, per alleviare un po’ i brividi di freddo che ancora scuotevano le membra, mi coprii lasciando libera solo la bocca di quel tanto che bastava per respirare.
Nel pomeriggio inoltrato, i medici di guardia passarono in rassegna i ricoverati e mi sottoposero alla prima visita confermando la diagnosi dell’ufficiale medico del campo militare. Un infermiere, diverso da quello che mi aveva accompagnato al letto, mi procurò un cappuccio arrangiato da una specie di sciarpa di lana e mi consigliò d’indossarlo per tenere al caldo le ghiandole parotidi infiammate dall’infezione. Le cure, nei giorni successivi, consistevano in spennellature delle guance con una pomata nera, forse ittiolo, che faceva bene a tutto, ed un paio di punturoni al giorno di chissà quale medicinale. Le mie condizioni di salute migliorarono rapidamente e già dopo un paio di giorni ero di nuovo in piedi, perfettamente in grado di badare a me stesso. Le guance erano già piuttosto sgonfie tuttavia i medici ritennero che fosse opportuno tenere la sciarpa-cappuccio ancora per qualche tempo.
Dopo due settimane lo staff medico certificò la mia guarigione e fui dimesso. In camerata, un infermiere mi consegnò il sacchetto col mio nome, contenente il mio abbigliamento d’ordinanza, apparentemente in condizioni identiche a quelle di quando ero stato ricoverato. Dal sacchetto estrassi la divisa grinzosa e secca come non mi era mai capitato di vedere in vita mia. Ma le grinze non erano grinze normali, sembrava che il completo fosse stato sottoposto al passaggio di un rullo schiacciasassi. La bustina, addirittura, era ristretta al punto che, sul momento, non fui capace neanche d’indossarla. Avevo l’impressione che fossero stati lavati, asciugati in un forno, magari per disinfettarli, e subito riposti nuovamente nel sacchetto, tanto erano dure e secche le grinze del tessuto. Forse addirittura lavati ed essiccati senza neanche toglierli dal sacchetto. Riuscii a vestirmi, in qualche modo e, in divisa, mi sedetti temporaneamente sul letto sfatto, appoggiato alla testata, con le mani dietro la nuca, in attesa che qualcuno venisse a comunicarmi le mosse successive. Poco dopo giunse il medesimo infermiere. Indietro lungo i corridoi, mi accompagnò all’ufficio accettazione dove mi fu consegnato un foglio che certificava la mia guarigione, da consegnare al comando del Reggimento.
Salii su un camion militare che, secondo la mia impressione, non prese la via di Durazzo, ma si diresse verso l’interno dell’Albania. Durante il tragitto, il militare autista confermò il presentimento, spiegandomi che il Reggimento si era spostato alla periferia di Elbassan, in prossimità del fiume Shkumbini, e fu lì che mi accompagnò.
All’arrivo, mi recai nella baracca del plotone comando, dove era stata allestita la fureria del campo, consegnai il certificato di dimissione dopodichè mi recai in magazzino per ritirare gli effetti personali e presi possesso della mia nuova postazione nella grande baracca adibita a selleria, nei dintorni del ricovero dei cavalli. Il comando del mio squadrone acconsentì nel concedermi i cinque giorni di riposo previsti dal certificato di dimissione tuttavia, alla scadenza della breve convalescenza, mi fu assegnato un servizio di 24 ore di sentinella. Era il primo servizio di guardia che facevo dal giorno in cui ero giunto in forza al Reggimento, se si esclude una nottata trascorsa presso la porta carraia della caserma di Voghera.
Le sentinelle, non ricordo quante, erano disposte lungo il perimetro dell’accampamento in postazioni a vista: durante la notte, in mancanza d’illuminazione, i contatti visivi con le postazioni vicine venivano sostituiti da chiamate alla voce:
«Sentinella all’erta!» urlavamo.
«All’erta sto!» rispondeva la sentinella della postazione vicina che a sua volta passava la chiamata a quella accanto e così via, a catena di voce, fino a ricominciare il giro da dove era iniziato.
Ogni tanto passava la ronda: due o tre soldati ed un ufficiale. Quando li scorgevamo ad una distanza di una decina di metri, imponevamo il classico:
«Altolà! Fermo o sparo!» col moschetto spianato che riponevamo solo dopo aver udito la corretta parola d’ordine dalla voce dell’ufficiale. Ottenuto il benestare all’avvicinamento, l’ufficiale chiedeva le novità e si allontanava verso la postazione successiva.
I turni di guardia erano di due ore, alternate ad altrettante ore di riposo. Al termine dell’ultimo turno di guardia, al mattino presto, il maresciallo responsabile della selleria mi si fece incontro e, con voce stentorea, mi apostrofò:
«Sellaio!»
«Comandi!» risposi scattando impettito sull’attenti.
«Riprendi il tuo posto!» ordinò indicandomi la baracca della selleria. Da quel momento ero di nuovo esente dai servizi ed il primo turno di guardia fu anche l’ultimo, per me.

venerdì 9 marzo 2012

missione "guerra"


Qualche giorno prima della Pasqua del 1942, dopo una quindicina di mesi di servizio militare, partimmo da Voghera alla volta di Bari da dove avremmo dovuto essere traghettati fino in seconda guerra mondiale, albania, adriatico, italia, monferratoAlbania. Ardeno ed Osvaldo avrebbero dovuto essere congedati già da qualche mese tuttavia il doloroso conflitto in corso aveva definitivamente snaturato i loro piani.
L’intento della missione, per quanto potevamo saperne all’epoca, ma soprattutto alla luce degli elementi emersi in seguito, era quello di recuperare la disastrosa campagna di Grecia dalla quale era immediatamente scaturita la guerriglia in Albania. Probabilmente all’epoca non conoscevamo neanche bene lo scopo ed il significato di quella stupida guerra ed in cuor nostro ben poco ce ne importava, tuttavia la sensazione di essere investiti del ruolo di liberatori o, per lo meno, di coloro che avrebbero aggiustato le cose fino ad allora cadute a precipizio ci rendeva piuttosto fieri. L’incoscienza della giovane età fece il resto e la notizia, dopo un iniziale momento di sconforto, fu presa con una certa qual eccitazione da gran parte dei miei commilitoni. Dal canto mio, non provai una particolare euforia, ma dovetti far buon viso a cattivo gioco, travolto dall’entusiasmo del resto della compagine.
Il lavoro di preparazione dei materiali da campo e della successiva caricazione sulla tradotta che ci avrebbe condotto all’estremo sudest della penisola ci assorbì per diversi giorni. Stivammo le cucine da campo, le nostre brande, quelle degli ufficiali, le armi, le derrate alimentari e tutto quanto il materiale necessario all’allestimento di un campo militare all’interno dei vagoni merci e sistemammo accuratamente le nostre cavalcature nei carri bestiame. Ognuno di noi trattava il proprio cavallo con la massima cura ed anche prima di partire provvedemmo ad una strigliata rilassante affinché gli animali, dal carattere nervoso di per sé, affrontassero il viaggio senza troppo stress.
Alla partenza, io salii su uno dei primi vagoni del convoglio e quando tutto fu pronto, il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” partì alla volta di Bari. Tra gli zaini e le borse da campo, sparpagliati sul pavimento, dopo aver riempito le insufficienti reti portabagagli sopra le nostre teste, il vagone era pieno in ogni ordine di posti e le inospitali panche di legno misero a dura prova i nostri giovani fondoschiena. Le sconquassate balestre degli assali del vagone fecero il resto e la sosta alla stazione di Bologna fu accolta come una liberazione.
Sfruttammo l’occasione per sgranchire le gambe rattrappite dalla forzata posizione seduta sulle disagevoli panche tuttavia la scarsità di tempo non ci consentì di verificare le condizioni delle nostre cavalcature. Poche ore ed uno squillo insistente di tromba c’informò che la tradotta era in procinto di riprendere il viaggio: riprendemmo i nostri posti e ripartimmo con uno scossone alla volta del capoluogo pugliese.
Arrivammo a Bari l’antivigilia di Pasqua ed allestimmo il campo in prossimità del porto, in attesa dell’imbarco per l’Albania. Giovani e sprovveduti, eravamo ancora inconsapevoli delle sorprese che il destino aveva in serbo per noi al di là del mare Adriatico.
Rimanemmo pochi giorni a Bari ed uno dei rari ricordi che ho ancora impresso nella mente, riguarda proprio la distribuzione del rancio nel giorno della vigilia di Pasqua.
In riga al rancio, distribuiti su file tre per tre, ci aspettavamo un trattamento speciale, vista la ricorrenza e, dal fondo della coda, sbirciavamo ansiosi in direzione della grande marmitta sul bancone dirimpetto all’ampio tendone sotto al quale era stata allestita la cucina da campo. Passo dopo passo, la fila scorreva abbastanza agevolmente allorché giunse il mio turno: mi pareva che distribuissero del brodo tuttavia non riuscivo a comprendere con che cosa avrebbero potuto cucinarlo, vista la carenza di carne di manzo o gallinacei adatti allo scopo.
La gavetta protesa ed il cucchiaio in mano, il militare addetto alla distribuzione del rancio si limitò a servirci tre romaiolate di qualcosa di quasi trasparente e molto simile all’acqua. Stupito e soprattutto abbattuto, gettai uno sguardo all’interno del contenitore di latta dove scorsi rarissime scaglie di una galletta che roteavano all’infinito nel brodo quasi incolore. Il vorticoso mulinello generato dal liquido appena rovesciato nella gavetta cilindrica, aveva un effetto quasi ipnotico al punto che non mi resi quasi conto, lì per lì, della scarsità e dell’assoluta inconsistenza della porzione. Mi scossi solo allorché, dopo aver mangiato le scaglie della rinsecchita galletta ed aver bevuto lo squallido brodo della gavetta, mi presentai a ritirare la razione di quella che avrebbe dovuto rappresentare la seconda portata del luculliano pranzo della vigilia di Pasqua. Avevamo tutti una fame da lupi, vista la giovane età e la scarsità di cibo di quel periodo, ed era giustificata la speranza che il companatico fosse più consistente di quanto non lo era stato il primo piatto. Prendemmo la definitiva batosta quando, da sotto il bancone, il militare estrasse una mela che definire striminzita è quasi un complimento. Una mela zuccherina, dolce quanto vogliamo tuttavia quantitativamente non conforme alle nostre esigenze nutrizionali, assunse i connotati del più tradizionale arrosto d’agnello, ormai per noi solo un lontano ricordo.
Altro che colombe, torte pasqualine e spumante…
Il giorno successivo iniziarono i preparativi per l’imbarco di tutto l’equipaggiamento militare sulla nave “Italia”, una specie di grossa chiatta, tipo quei mezzi da sbarco che si vedono nei film di guerra americani. All’alba di qualche giorno dopo Pasqua, allorché le operazioni d’imbarco furono completate ed i cavalli furono saldamente assicurati a bordo, il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” salpò alla volta della sponda Albanese del mare Adriatico. La M/N “Italia” era la seconda di un convoglio di tre navi con le prore dirette alla volta di Durazzo.
Quando alle nostre spalle erano già da tempo scomparse le sagome dei rilievi Italiani e, nei bagliori delle prime luci del mattino, si cominciavano a delineare le ombre delle montagne Albanesi, udimmo le grida concitate del marinaio di guardia subito seguite da prolungati e ritmici sibili della sirena dell’allarme. Gli ufficiali superiori ci suggerirono di liberarci dalla zavorra degli scarponi e dei gambali, mentre i sottufficiali distribuivano i salvagente che noi indossammo prontamente e senza battere ciglio. Sulla coperta di quella nave, sembrava il giorno del giudizio, tanta era la concitazione per l’improvvisa situazione d’emergenza. Facendo affidamento sulle voci insistenti e preoccupanti che circolavano tra le fila, gli strumenti di bordo avevano individuato la presenza di uno o più sottomarini nemici, non saprei dire di che nazionalità, ma, a dire la verità, noi non ci siamo mai visivamente resi conto di niente del genere. Un’oretta dopo l’allarme, passata ad elaborare congetture su un eventuale attacco da parte dei sottomarini in questione, ci rendemmo conto del concreto pericolo che avevamo appena passato, scorgendo tre cacciatorpediniere battenti bandiera italiana, schierati a protezione del convoglio: due di essi ci affiancavano rispettivamente a babordo e tribordo laddove il terzo era un po’ più distante, a proravia. L’apparizione della scorta risollevò gli animi ansiosi tuttavia confermò la tangibile pericolosità della situazione nelle acque dell’Adriatico.

domenica 22 gennaio 2012

Dalla licenza a capo-arma


Durante il periodo del servizio militare, da Voghera, ero riuscito a venire a casa solo tre volte, di cui solo quella successiva al giuramento fu veramente voluta, mentre le altre due mi furono concesse per testimoniare al processo intentato dalla mia famiglia contro la proprietaria della fattoria della quale eravamo mezzadri.
Nell’autunno precedente la partenza per Voghera, capitò che la zia Giulia fosse protagonista di un incidente casalingo piuttosto serio.
Un giorno come tanti, in cui trafficava per l’ampia cucina al primo piano della cascina abitata dalla numerosa famiglia Volterrani, la zia Giulia stava preparando la cena per la cospicua truppa dei familiari. Senza preavviso alcuno, il pavimento della cucina stessa aveva ceduto di schianto e la povera disgraziata si era trovata sul lastricato del corridoio della stalla sottostante completamente coperta di macerie. Io, per l’appunto, mi trovavo a transitare in prossimità della stalla e fui tra i primi a soccorrerla inducendo gli avvocati a convocarmi per ben due volte alle sedute del processo intentato dalla mia famiglia contro la padrona di casa. Le numerose vacche legate alla mangiatoia, che in quel momento volgevano le terga alla vittima dell’incidente, si agitavano comprensibilmente, mettendo ulteriormente a repentaglio le sue condizioni. Quando giunsi sul posto, le zampe posteriori di un paio di loro sgambettavano freneticamente e pericolosamente nelle immediate vicinanze del corpo inanimato della zia e mi prodigai, innanzitutto, ad allontanare le bestie dalla zona. Dalla stalla, guardando in alto, si vedevano chiaramente diversi vetusti travicelli di sostegno del pavimento della cucina soprastante, la cui robustezza era stata definitivamente compromessa dagli innumerevoli minuscoli fori dei tarli del legno. La pulverulenta segatura dei travicelli rotti cadeva ancora lentamente, quando sopraggiunsi ad aiutare la zia Giulia. L’impressione fu tremenda: la povera zia se ne stava completamente immobile e coperta dalle macerie del pavimento crollato ed in cuor mio temetti seriamente per la sua vita. La testa giaceva immobile, reclinata sul lato destro e la pezzola nera, che la zia usava per coprire il lunghi capelli raccolti sulla nuca in una crocchia voluminosa, giaceva abbandonata lì vicino. La chioma grigia, liberata dalla costrizione delle forcine e della pezzola, coronava irregolarmente la faccia smunta e priva d’espressione della sventurata zia. Presto altri familiari raggiunsero il luogo dell’incidente, attratti dal fragore del crollo e dal grido della malcapitata, e molti di loro si disperavano temendo il peggio. Trascorsi i primi momenti di giustificato sconforto, tutti ci arrabattammo per liberare la zia dalla costrizione dei calcinacci e, cautamente, ne adagiammo il corpo sul pagliericcio dalla parte opposta della mangiatoia, dove gli animali si stavano lentamente ricomponendo.
Ad un primo esame, la zia presentava ferite di lieve entità su diverse zone della faccia e delle braccia, ma quello che faceva più temere erano le condizioni delle gambe e del bacino. Grazie all’efficacia delle esalazioni dell’aceto contenuto in un’ampolla, le donne di famiglia riuscirono a rianimare la zia Giulia che si lamentava di forti dolori proprio al bacino ed alla schiena. Allestita una barella d’emergenza con delle assi recuperate da un angolo della carraia, portammo la zia di sopra, in camera sua, le donne si preoccuparono di disinfettare le ferite e qualcuno corse a chiamare il medico di famiglia che giunse di lì a poco emettendo la sua diagnosi. I forti dolori alla bassa schiena ed al bacino erano dovuti al grave contraccolpo subito nella caduta, ma pareva che non ci fossero fratture o lesioni interne. Il medico, tuttavia, le prescrisse un lungo periodo di riposo per non aggravare eventuali piccole lesioni della colonna vertebrale e delle zone circostanti. Le lacerazioni del volto, al contrario, sarebbero guarite in pochi giorni.
Gli uomini della famiglia si erano a suo tempo ed a più riprese, purtroppo inutilmente, rivolti alla padrona di casa richiedendo interventi di manutenzione sulla cascina che versava in precarie condizioni. In quell’occasione, una volta rassicurati sulle condizioni della zia, presero la palla al balzo per mettersi nelle mani di un avvocato che tutelasse i loro interessi e provvedesse a richiedere un adeguato risarcimento per le lesioni patite dalla congiunta.
Nel frattempo io dovetti partire per adempiere gli obblighi di leva.
Una volta intentata la causa, l’avvocato della mia famiglia comunicò alla locale stazione dei Carabinieri la necessità della mia testimonianza e questi inviarono la richiesta di convocazione direttamente al comando del mio Reggimento d’appartenenza.
Non ricordo i particolari delle due udienze e, viste le vicissitudini che caratterizzarono la mia esperienza militare nel periodo successivo al processo, non ho mai conosciuto gli esiti della causa: posso solo dire che, al mio ritorno, nell’agosto del quarantacinque, l’aspetto della cascina era decisamente migliore di come lo ricordavo.
Al ritorno in caserma da una delle due licenze, forse la prima, nell’autunno del quarantuno, scoprii che il mio squadrone era partito per un’esercitazione nel circondario di Voghera ed il comando del Reggimento decise di farmi ricongiungere al più presto al gruppo. In selleria, raccolsi lo stretto indispensabile per il campo poi, accompagnato da un caporale e da un soldato del plotone comando, saltai in groppa al fiero Alone e mi misi in cammino per raggiungere il manipolo. L’accampamento era stato allestito su un ampio pianoro tra verdi colline da cui si scorgevano cime ben più alte spruzzate di neve. Giungemmo a destinazione che già faceva scuro, assicurammo i cavalli al tronco di una robusta pianta ed il caporale, a cui ero stato assegnato per il ricongiungimento, mi accompagnò alla tenda dove si era preventivamente installato il quartier generale del campo. Ci presentammo impettiti sull’attenti al cospetto del capitano al quale il caporale consegnò la missiva del plotone comando e fummo indirizzati alla fureria del campo. Il furiere registrò il mio arrivo e m’indicò la tenda adibita a selleria all’interno della quale il maresciallo, mio diretto superiore, mi passò le ormai ben note consegne di sellaio, non prima di essersi lamentato per i miei quattro giorni di assenza.
Il giorno successivo era prevista un’esercitazione con la pesante mitragliatrice e fummo inquadrati a file di sei per occupare a turno le altrettante piazzole di terra battuta dalle quali effettuare le operazioni di tiro. Le piazzole dominavano una stretta valle oltre la quale alcune sagome erano state piazzate sul pendio della collina dirimpetto. Attendendo il mio turno, man mano che la mia squadra si avvicinava alle piazzole, mi accorgevo che ben pochi riuscivano ad inquadrare i bersagli a conferma di una scarsità di mira a dir poco disarmante.
“Possibile che sia così difficile colpire i bersagli?” mi chiedevo perplesso.
Più mi avvicinavo alle piazzole e più mi convincevo che le capacità di tiro dei mie commilitoni erano davvero scarse.
Ben presto giunse il mio momento: mi presentai alla piazzola, gridai le generalità all’ufficiale di turno e mi coricai bocconi sulla mitragliatrice dalla canna ancora fumante per i colpi appena scaricati. Mi accoccolai sul calcio e sistemai adeguatamente i due supporti della canna in modo da agevolare al massimo le operazioni di puntamento.
All’ordine dell’ufficiale scaricai la fusciacca di proiettili sul bersaglio di mia competenza e già dai primi colpi mi accorsi che non era poi così difficile. Prendendo confidenza con l’arma, le nuvolette di terra dei colpi mancati intorno alla sagoma diminuirono progressivamente, laddove il bersaglio si deformava sempre di più sotto la gragnola dei colpi della mia mitragliatrice. Al termine, compiaciuto, declinai nuovamente le generalità ed attesi con orgoglio l’esito della prestazione. Soddisfatto del risultato, ritornai tra le file dove fui accolto da pacche sulle spalle e molti sorrisi ironici dei miei commilitoni.
In serata, prima di smontare l’estemporaneo poligono di tiro, al termine dell’esercitazione, il sottufficiale di giornata ci raggiunse tra le fila e confermò i risultati delle nostre prestazioni.
«Dall’esercitazione odierna emerge che, per i notevoli risultati ottenuti, il cavalleggero Volterrani è uno dei nuovi capi-arma e sarà responsabile di una delle mitragliatrici fino al nostro rientro in caserma!» sentenziò il sergente maggiore.
Non feci in tempo a compiacermi per la prestigiosa investitura che i miei compagni, sorridendo sornioni, mi comunicarono il significato di quella nomina.
«Da domani, fino al rientro in caserma, sarai tu che, durante le marce, dovrai sobbarcarti il peso della mitragliatrice sulle spalle!» mi dicevano da più parti. «Hai capito, ora la ragione per cui noi prendevamo la mira dappertutto tranne che sul bersaglio?».
“Ecco perché tutti si dimostravano così incapaci!” mi rammaricai tra me.
Dopo aver lasciato la caserma, nei giorni precedenti il mio rientro, lo squadrone era già stato protagonista di altre due esercitazioni del genere, in due campi diversi, ed ogni volta erano stati nominati capi-arma i migliori tiratori del gruppo.
Al di là del titolo, rivelatosi del tutto fittizio, il capo-arma aveva l’obbligo di sobbarcarsi il peso e l’ingombro della mitragliatrice sulle spalle durate tutti gli spostamenti dello squadrone, fino alla nomina di un nuovo sostituto eletto tra i migliori tiratori delle esercitazioni al poligono. Per mia sfortuna, risultai il migliore dell’ultima prova prevista per quell’uscita e le mie spalle, nonché la mia cavalcatura, dovettero sopportare il pesante fardello della mitragliatrice durante le marce dei successivi tre giorni che ci separavano dal rientro in caserma.
I miei colleghi avevano fatto tesoro delle esperienze precedenti e si guardavano bene dal colpire il bersaglio per non rischiare l’onerosa investitura.
Fu quella la penultima licenza. L’ultima fu qualche giorno prima del Natale del quarantuno ed al rientro in caserma mai e poi mai mi sarei immaginato che sarebbero trascorsi quarantatre lunghi mesi prima di rivedere la mia amata terra.