La baracca della selleria non era tanto male, se confrontata con gli altri alloggi. Era piuttosto grande ed arredata con numerosi puntelli, disposti su due file parallele e sovrapposte, sui quali riponevamo le selle a riposo. Il mio compito era quello di controllare le condizioni di selle, collari ed altri finimenti in cuoio ed
eventualmente ripararli. I collari servivano per legare i cavalli a riposo: erano più confortevoli e certamente meno pericolosi e stressanti delle briglie, dal canto loro insostituibili durante la conduzione degli animali al troppo o al galoppo. Saltuariamente, i compagni d’armi mi affidavano la riparazione di stivali anfibi o scarponcelli “intermedi” mentre capitavano più raramente le scarpe più raffinate, da divisa drop, che appartenevano esclusivamente al corredo degli ufficiali. In un angolo avevo sistemato il mio banchetto da lavoro, con tutte le lesine, i martelli a testa piatta, gli spaghi, i grossi aghi ed i vari supporti su cui appoggiare gli accessori durante la riparazione. I cassetti, suddivisi in piccoli scomparti, erano sempre pieni di semenze di ogni dimensione in relazione al rispettivo utilizzo.
Ogni mattina facevo il giro della scuderia, se scuderia si può chiamare lo spazio all’aperto dedicato ai cavalli in un accampamento militare, ed incontravo gli addetti alla raccolta delle fiande (gli escrementi solidi mischiati ad erba parzialmente digerita), abbondantemente prodotte dai numerosi cavalli: passavano dietro ai cavalli, raccattavano le fiande con le mani e le riponevano in un capace cesto che, una volta riempito, veniva svuotato in un luogo, lontano dal campo, adibito a discarica. Non era permesso avvicinarsi ai cavalli con pale, forche o qualsiasi altro strumento che rischiasse anche minimamente di mettere a repentaglio l’incolumità dell’animale. Vista la sua natura nervosa, l’equino avrebbe potuto scartare in qualsiasi momento, soprattutto se qualcuno gli gironzolava intorno, e non era concepibile che corresse neanche il minimo rischio di subire una seppur lieve ferita.
Mi ricordo che eravamo ancora a Voghera allorché uno degli addetti fu trovato in prossimità delle terga degli animali a raccogliere le fiande con l’ausilio di una tavoletta di legno. Che pericolo avrebbe potuto costituire una tavoletta di legno per i garretti dell’animale non mi è dato di sapere, fatto sta che il caporale di giornata punì il malcapitato che fu consegnato per cinque giorni. È naia ed ogni scusa è buona per creare delle difficoltà, soprattutto alle reclute, da parte dei sottufficiali immediatamente superiori. Ho visto punire più soldati dai caporali che da qualsiasi altro graduato, ufficiale o sottufficiale che fosse. L’acquisizione del grado, seppur infimo, sembrava autorizzasse il militare ad abusare dell’autorità conferitagli e tale abuso, in genere, scemava con l’aumentare d’importanza del grado stesso.
Al campo in Albania, come già in caserma a Voghera, la rimozione delle fiande faceva parte dell’ordine dei servizi saltuari. Al termine di una di quelle giornate, le mani erano verdi come i residui d’erba parzialmente digerita che avvolgevano gli escrementi e non esisteva detersivo in grado di lavarle del tutto. Ho visto soldati con le mani verdognole anche tre giorni dopo aver svolto il servizio di rimozione fiande. Una volta, a Voghera, da recluta, anch’io ho dovuto svolgere l’odiata mansione, ma fortunatamente soltanto una volta.
Nel mio giro di ricognizione in scuderia controllavo le condizioni dei collari e, se ne trovavo uno danneggiato, lo sostituivo e lo portavo in selleria per ripararlo.
Da solo, in selleria, ero in grado di mantenere in ordine selle, collari e coperte da sella per tutte le cavalcature del mio squadrone di appartenenza. Non avevo l’obbligo né di adunate e tanto meno di contrappelli.
Già a Voghera ero esentato da tutti i servizi e spesso, dalla finestra del mio laboratorio al terzo piano, al calduccio di una stufa rovente, vedevo il mio squadrone che rientrava dalle esercitazioni, alle quali partecipavo solo saltuariamente: i cavalli avevano i ghiaccioli ai baffi, dal freddo che faceva.
Essendo da solo, nella baracca della selleria, mi riproposi di adottare una soluzione alternativa al giaciglio di semplici coperte adagiate sulla nuda e cruda terra: mi sarei costruito una rapazzola, ovvero una specie di branda, che almeno mi mantenesse sollevato dal suolo. Raccolsi un po’ di legna in giro, la ripulii adeguatamente e costruii quattro forcelle che piazzai agli angoli del costruendo giaciglio. Piazzai un robusto bastone di circa un metro per ogni coppia di forcelle e, tra i due bastoni trasversali, disposi sette o otto verghe longitudinali, un po’ più sottili e di conseguenza più elastiche. Robusti correggioli di cuoio tenevano saldamente uniti tra loro i vari pezzi della branda. La struttura del mio nuovo giaciglio era completata, ne testai la robustezza sedendomi a più riprese e mi compiacqui della buona riuscita del lavoro svolto. Era sufficiente, a quel punto, coprire il piano di legna con le coperte bianche da sella, che ovviamente non mi mancavano, e la mia cuccetta era pronta. Le coperte bianche in questione erano utilizzate per coprire il dorso del cavallo, allo scopo di attenuare il fastidio generato dal cuoio e dalle cuciture di cui era costituita la sella: centosettanta cavalli stavano a significare altrettante selle: hai voglia di coperte!
Per qualche notte ritrovai il piacere di dormire quasi in un letto autentico tuttavia, ben presto, si rivelò un benessere, purtroppo, effimero. Dopo una settimanetta di notti trascorse a dormire come un papa, o per lo meno mi sentivo tale, in rapporto agli altri che dormivano sulla cruda terra, cominciai ad accusare prurito ad un braccio, poi ad una gamba, alla schiena insomma, dopo un paio di notti passate a grattarmi decisi di accertare il motivo di tutto quel fastidio. Disfeci la branda e la sorpresa fu tale che mi vidi costretto a rinunciare al beneficio del comodo giaciglio: migliaia di uova che le cimici avevano deposto nello spessore del legno, invisibili al momento della costruzione della branda, si erano schiuse e le minuscole larve ed alcuni insetti avevano infestato le coperte, il legno stesso ed i miei vestiti. Fui costretto, mio malgrado, ad abbandonare e distruggere il mio regale giaciglio, la rapazzola, per ritornare alla vecchia abitudine di dormire per terra, pur usufruendo ugualmente della comodità delle numerose soffici coperte da sella sovrapposte.