giovedì 13 ottobre 2011

Lo slittino


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Il sole stava per tramontare, quando alla fine del febbraio del 1941, giungemmo in una delle zone montane scelte per un campo invernale, forse sulle pendici delle alpi Pennine (da Voghera ci eravamo diretti a nord transitando per il paese di Oleggio).
La neve era abbondante, nonostante non ci trovassimo in montagna, forse più in alta collina, a giudicare dalla vegetazione e dalle lievi pendenze affrontate nel raggiungere il sito.
Nella penombra del precoce tramonto invernale, si scorgeva una grande distesa innevata, al riparo di un crinale roccioso, quasi completamente circondata da abeti ed altra vegetazione pedemontana. Solo il limite sud, a giudicare dalla posizione del sole al tramonto, era completamente sgombro e sconfinava in un evidente pendio: quella che oggi si potrebbe chiamare una pista per sciare. La delimitazione della discesa, sui lati, era garantita dalla bassa vegetazione boschiva, laddove, più in basso, la pendenza diminuiva sensibilmente trasformandosi in un ampio pianoro.
Allestimmo in fretta le tende militari cinque per cinque, per l’appunto adibite ad ospitare cinque soldati ciascuna, e disponemmo il cerchio dei cavalli precedentemente liberati dalle costrizioni delle finiture. Faceva un gran freddo tuttavia l’equipaggiamento da campo si rivelava piuttosto efficace consentendoci di affrontare agevolmente i rigori del periodo. Le spesse coperte dal colore scuro indefinito ed il pesante pastrano facevano in pieno il loro dovere e devo dire che anche la divisa invernale, se della misura giusta e ben attillata, era sufficiente a mantenere il corpo ad una temperatura sopportabile durante i quindici giorni del campo.
Una volta completato l’allestimento del campo, ci stavamo organizzando attorno al bivacco, per la frugale cena quando il capitano, comandante del campo, mi chiamò a gran voce:
«Cavalleggero!» Fece con voce tonante al mio indirizzo col suo classico, arcigno modo di fare.
Il capitano era un tipo burbero, ma quello che io definirei un falso burbero: quando chiamava a gran voce incuteva timore, ma spesso lo scoprivamo a ridere sotto i baffi, forse compiacendosi dell’effetto che il suo atteggiamento generava sulle nostre facce spaurite.
In quell’occasione, ed in molte altre, corsi prontamente al suo cospetto e mi presentai sull’attenti, in osservanza al rigore imposto dalle regole militari, sfoggiando il saluto marziale:
«Comandi, Signor Capitano!» gridai pronto.
«Antonio, seguimi!» Continuò, concedendomi questa volta il beneficio del nome di battesimo, aspirando una boccata dal sigaro Toscano che pendeva dalle sue labbra.
Io fui investivo dalla nuvoletta di fumo azzurrognolo generata dal sigaro e lo seguii in silenzio per qualche metro, fino al limite massimo del pendio che guardava a sud, dove trovammo posteggiato un simpatico slittino di legno chiaro. Stupito, notai che il capitano si stava sedendo sullo slittino in questione e lo stava rivolgendo in direzione della discesa. Sistemato il pesante pastrano alla bell’è meglio ed impugnata la cordicella collegata alla parte anteriore dello slittino, il capitano si tolse il mozzicone di sigaro dalle labbra, lo spense accuratamente nella neve pressata dagli scarponi e mi rivolse nuovamente la parola:
«Volterrani, dammi una spinta!» Ordinò, ritornando a chiamarmi per cognome.
«Signor Capitano». Mi risentii io impettito sull’attenti. «Io le do una spinta, ma se prende il via, chi la ferma più?».
«Cavalleggero! T’ho detto di darmi una spinta: è un ordine! Non vorrai contravvenire ad un ordine?».
Cosa potevo fare? Non avevo altra scelta se non assecondare le richieste del mio capitano. A quel punto mi allontanai di un paio di passi e, dopo una breve rincorsa, calzai bene i guanti di pelle ed appoggiai i palmi delle mani aperte alla schiena del superiore spingendolo violentemente verso la discesa.
Una breve esitazione ed una leggera in traversata, poi lo slittino puntò decisamente verso la discesa innevata prendendo via-via velocità col procedere verso valle. Nei primi metri, il capitano dimostrò di governare agevolmente il mezzo compiendo ampie ed eleganti curve a zig-zag assecondate dall’armonico movimento del busto, pur infagottato nel pesante pastrano militare. Di lì a poco, tuttavia, la velocità incrementò al punto che le curve divennero sempre meno ampie ed i movimenti del graduato sempre meno eleganti e più goffi.
Dalla volata che aveva, e un po’ per il crepuscolo incombente, riuscivo a malapena a scorgerlo, giù per il pendio. Improvvisamente, forse a causa di un argine contro cui cozzò lo slittino o per chissà quale altra ragione, scorsi il mio superbo superiore che rotolava rovinosamente nella neve e rimbalzava a destra e a manca come un pallone impazzito. Più tardi avrei scoperto che l’incremento della velocità dello slittino fu tale da indurre il capitano a scovare un modo per rallentarne la corsa. Intimorito dal pericoloso e progressivo avvicinarsi della fine del declivio, l’ufficiale aveva pensato bene di far cambiare direzione allo slittino che s’intraversava causando il pericoloso e spettacolare ruzzolone.
Immobile sul colmo della discesa, non osavo immaginare la reazione del capitano al suo ritorno al campo. Lo osservavo risalire faticosamente la china, con lo slittino a traino ed era mia intenzione manifestare almeno apprensione, allo scopo di attenuare l’eventuale strigliata. Nonostante l’impedimento del cappotto e degli scarponi anfibi, mi misi a correre giù per il pendio per andargli incontro e sollevarlo, almeno, del peso dello slittino. Man mano che ci avvicinavamo, notavo il pastrano quasi completamente coperto di neve e riuscivo solo ad intuire la sua faccia scura. Giunti a pochi di passi di distanza, il Capitano si fermò, ed io feci altrettanto, scagliò lo slittino sulla neve e si mise le mani sui fianchi osservandomi con un cipiglio da intimorire il più spavaldo degli uomini. Pochi secondi a sopportare lo sguardo di ghiaccio, pienamente in sintonia con l’ambiente circostante, poi, all’improvviso, il capitano scoppiò in una fragorosa risata finendo per coinvolgermi completamente. Ridendo, mi avviai verso di lui per raccattare lo slittino, ma quando gli fui vicino egli si ricompose e mi apostrofò con un tono gelido:
«Ah! Ridi pure?».
Costretto dalle circostanze, dovetti reprimere il riso che pure era sgorgato così spontaneo. Mi caricai lo slittino sulle spalle e m’incamminai affondando gli scarponi anfibi nella neve alta. Nel silenzio più completo, rotto solo dal fruscio dei passi nella neve, affrontammo il tratto più alto del declivio ed il percorso di ritorno verso il campo, col buio che oramai si era impadronito della zona. Successivamente, nella stessa serata, mi capitò di transitare nelle vicinanze della tenda allestita a mensa ufficiali dove il Capitano e gli altri ufficiali del campo organizzavano le attività per la giornata successiva, alla luce flebile dei lumi a petrolio. Pur mantenendo la statuaria posizione, il superiore non riuscì a trattenere un sornione sorriso ed un’accattivante smorfia del viso, assolutamente in contrasto con l’austerità imposta dal grado elevato e dalla divisa indossata.
Il buio non era abbastanza fitto da celare l’inattesa seppur benevola reazione del severo ufficiale.