Abbiamo fame
Di ritorno dall’ospedale mi
resi subito conto che qualcosa di strano e drammatico aleggiava nell’aria:
nella settimana di assenza le derrate alimentari, già scarse prima del mio
ricovero, si erano drammaticamente ridotte ed un crescente malumore serpeggiava
tra le fila. Al rancio del mezzogiorno ci rovesciarono nella gavetta due dita
di una brodaglia incolore ed inodore e ci consegnarono due gallette a testa.
Nient’altro! La stessa cosa successe la sera. La mattina successiva: colazione
neanche a parlarne.
La situazione si protrasse
per alcuni giorni, durante i quali riuscimmo ad ottenere al massimo una mela
rinsecchita o una cipolla, poi le rimostranze per la scarsità di cibo,
alimentate dai morsi della fame, si fecero più consistenti costringendo il comandante
del campo ad indire un’adunata straordinaria per comunicazioni che egli
riteneva importanti.
Alle tre del pomeriggio il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”
si trovò schierato al cospetto di un nutrito gruppo di ufficiali del plotone
comando da cui si staccò il comandante del campo per avvicinarsi alla truppa.
Più affranto di noi e
certamente più rassegnato, ci comunicò che la situazione non era migliore per
il plotone comando in quanto le derrate alimentari che arrivavano dall’Italia
erano state drasticamente ridotte a causa della pressante crisi economica dovuta
alla guerra. Ci disse che in Patria, purtroppo, le condizioni erano pressoché
simili alle nostre e che la gente soffriva come noi per la fame cronica. Per
far fronte alla crisi, si diceva che il governo fascista aveva addirittura
confiscato tutto ciò che di oro ed altri metalli preziosi una famiglia poteva
serbare: la confisca non aveva risparmiato neanche le fedi nuziali col pretesto
di finanziare le missioni del nostro esercito nelle colonie. Si stava letteralmente
raschiando il fondo del barile, già ampiamente ripulito in precedenti
situazioni d’emergenza.
«Inoltre,» proseguì il
comandante raggiungendo l’estremità dello schieramento e bloccandosi impettito
con le mani dietro la schiena «dovete tenere presente che noi, sperduti quaggiù
in queste lande desolate, siamo il gradino più basso di una scala troppo lunga
per non dar luogo a deprimenti dispersioni».
Detto questo si chinò e
raccolse un pugno di terra, talmente fine da sembrare sabbia, che consegnò
nelle mani disposte a coppa del primo soldato della fila, poi riprese con tono
rassegnato:
«Fate conto che io, in
questo momento, rappresenti lo Stato Maggiore del nostro esercito ed abbia
appena consegnato al vostro collega, delegato all’invio, gli approvvigionamenti
per il nostro contingente, per l’appunto la manciata di terra. Prima che le
derrate alimentari arrivino da noi, subiscono una serie di passaggi durante i
quali patiscono drammatici sfoltimenti.» Continuò, istruendo il militare di
fianco a lui di consegnare il pugno di sabbia al vicino di schieramento.
«Notate bene che cosa succede al pugno di sabbia nelle varie consegne…»
Sotto i nostri occhi mesti,
dopo pochi passaggi il pugno di sabbia si ridusse a pochi granelli che
scomparsero inesorabilmente dopo l’ultimo dei cinque o sei passamano.
«Ecco che cosa resta di ciò
che viene originariamente destinato ai contingenti all’estero!» concluse
sconsolato «Arrangiamoci, dunque, finché possiamo! Da ora in avanti dovremo far
affidamento solo sulle nostre forze!».
Non riesco a dare una
configurazione temporale precisa all’episodio, ma non è difficile arguire, col
senno del poi, che ci stavamo avvicinando a grandi falcate al fatidico otto
settembre.