venerdì 18 aprile 2014

Che tipo!

Che tipo!
  
Al campo di Elbassan si manifestò un altro episodio febbrile della durata di qualche giorno che indusse l’ufficiale medico a predisporre un mio nuovo ricovero in ospedale. La solita camionetta mi accompagnò al nosocomio che distava pochi chilometri dal campo e, al termine della consueta trafila burocratica che mi ammetteva in ospedale, mi ritrovai a condividere una camerata con una decina di personaggi. Al contrario di quando fui ricoverato a Tirana per gli orecchioni, ebbi la sensazione che i ricoverati non fossero tutti militari e l’impressione fu confortata dal fatto che alcuni di loro fossero albanesi piuttosto anziani e quindi non più in età da servizio militare. Una camerata multietnica non era certo il massimo, visti i rapporti poco felici con i
partigiani locali, ma evidentemente a nessuno interessava veramente quello che succedeva al di fuori di quelle quattro mura, in quanto l’ambiente si dimostrò piuttosto disteso.

A dire il vero, però, la tranquillità era spesso turbata dalla presenza di un tipo che occupava il letto di fianco al mio: pazzo da legare! Il tizio dava l’impressione evidente di aver completamente perduto il cervello e non ricordo un episodio in cui abbia dimostrato un pur minimo stato di lucidità: gli occhi chiari e sempre sgranati, i capelli castani scarruffati e la barba incolta sul volto emaciato e pallido davano proprio il senso della condizione psichica in cui si trovava l’individuo. Nel periodo di degenza, una settimana circa, non sono riuscito a conoscere il suo nome né a comprendere se fosse italiano o albanese, tanto era il suo stato confusionale. Nei momenti più tranquilli se ne rimaneva sdraiato sul letto mormorando fra se parole prive di significato; a volte piangeva sommessamente scatenando moti di pietà, ma più spesso dava in escandescenze, soprattutto di notte e sempre senza un’apparente motivazione. Capitava che, nel cuore della notte, si avvicinasse furtivamente al letto di qualche paziente ed improvvisamente iniziasse a sbraitare e scalmanarsi come per malmenare il malcapitato tuttavia non ha mai fatto del male a nessuno, almeno nel periodo in cui gli sono stato a contatto. Ognuno dei ricoverati reagiva da par suo agli isterismi del poveraccio in relazione al suo comportamento ed al momento in cui si presentava. Chi cercava di calmarlo, chi lo allontanava e qualcuno era perfino capace di fare finta di niente, forse abituato da tempo alle sue escandescenze.
Le prime sere stentavo ad addormentarmi con la paura che il matto potesse infierire su di me.

Una volta, sarà stata mezzanotte, stavo riposando su un fianco, con la testa affondata nel cuscino e la coperta tirata fino al collo, quando un fruscio mi ha permesso d’intuire le mosse di avvicinamento dell’insano: ho voltato la testa per accertarmi di quello che stava accadendo e mi sono ritrovato il lieve luccichio dei suoi occhi spiritati a pochi centimetri dai miei. Nella penombra delle luci, come ogni notte di ridotta intensità, distinsi chiaramente la sua bocca stravolta da un ghigno raccapricciante da cui facevano capolino denti storti ed ingialliti. Per un attimo ho percepito l’odore acre del suo alito maleodorante. Ho urlato per lo spavento con quanto fiato avevo in gola e lui ha fatto altrettanto svegliando tutta la camerata e forse anche quelle vicine. Con un balzo all’indietro si è scostato dal letto continuando a gridare ed agitarsi come un ossesso e fissandomi con gli occhi fuori delle orbite mentre io, seduto sul materasso, osservavo attonito l’evolversi delle circostanze. I compagni di camerata lo raggiunsero in fretta, senza tuttavia mettergli le mani addosso o cercare di bloccarlo in qualche modo, forse coscienti del fatto che era completamente innocuo. Gli infermieri, accorsi per lo strepito, dimostrarono di governare agevolmente una situazione già vissuta: lo accompagnarono cautamente nel letto aiutandolo a coricarsi, lo coprirono con gesto compassionevole e, trascorso un breve lasso di tempo, necessario ad assicurarsi che le acque si fossero calmate del tutto, se ne andarono da dove erano venuti.
Mi ripresi dallo spavento e mi misi ad ascoltare i commenti dei compagni di camerata, per lo meno quelli dei miei connazionali: la pena per il povero cristo era il sentimento che dominava nelle poche parole che precedettero quella lunga notte. Inutile dire che non chiusi occhio fino a giorno fatto e per alcune altre notti successive, nonostante il tizio abbia esaurito il suo interesse nei miei confronti con quell’unico agghiacciante episodio.

Mi dimisero dall’ospedale nel giro di una settimana, una volta sedata la crisi febbrile, e fui rispedito al campo non lontano dalle sponde dello Shkumbini, poco distante dalla periferia di Elbassan.