Richiesta di
matrimonio
Nella primavera del ’43,
decisi di prendere il toro per le corna e tentare il tutto per tutto per
ottenere una licenza che mi concedesse una pausa rasserenante.
Osvaldo, mio fedele compagno
d’armi, lo stesso col quale avrei condiviso la maggior parte delle disavventure
successive all’otto settembre, si era sposato poco prima di essere richiamato
per la missione ai piedi dei Balcani. Vista la situazione, aveva ottenuto una
licenza di trenta giorni che gli concesse di riabbracciare la moglie e la
famiglia tutta prima di essere rispedito oltre il Canale d’Otranto. Durante la
licenza, la moglie rimase in stato interessante e fu così che, al suo ritorno
in patria, Osvaldo si ritrovò ad affrontare una figlia piccolissima che, ovviamente,
non lo conosceva e lo rifiutava totalmente, nonostante le accorate spiegazioni
della madre.
«Non lo vollio chello
lomo!!!» Piangeva la piccola al cospetto del padre reduce, stringendosi
spasmodicamente al collo della mamma.
Analizzando bene la situazione,
volevo anch’io architettare qualcosa che mi avrebbe permesso di usufruire a mia
volta di una licenza speciale. Dopo reiterate congetture sulla situazione
contingente, certo del fatto che amavo Giorgina più di ogni cosa, tentai di
prendere i classici due piccioni con una fava e mi risolsi a chiedere al padre
l’autorizzazione a sposare la figlia poco più che diciottenne. Il matrimonio
avrebbe definitivamente coronato il sogno d’amore, mio e della mia amata,
offrendomi, allo stesso tempo, l’opportunità di richiedere ed ottenere
l’agognata licenza di una trentina di giorni. Carta e penna, buttai giù una
lettera nella quale spiegavo la situazione e m’impegnavo a rispettare ed onorare
Giorgina per il resto della vita, previa l’autorizzazione del burbero genitore
a convolare con lei a giuste nozze. Chiusi la lettera in una busta gialla ed
affidai il tutto alla fureria del campo confidando in un celere invio ed in
un’altrettanto sollecita consegna al destinatario padre.
L’agognata risposta non
tardò ad arrivare e, dopo una ventina di giorni, l’ufficiale responsabile del
mio plotone mi consegnò la busta contenente la lettera di colui che già
ritenevo il mio futuro suocero. Il contenuto della lettera, purtroppo, non
rispettava le mie aspettative ed il genitore confermò la scontrosità del
proprio carattere non acconsentendo al matrimonio. Egli adduceva scuse che a me
non parevano attendibili: faceva riferimento alla giovanissima età della
figlia, al poco tempo che avevamo avuto a disposizione per conoscerci e, soprattutto,
al fatto che l’estrema precarietà della situazione in cui mi trovavo io,
avrebbe potuto, un giorno o l’altro, causare la totale infelicità di Giorgina.
Testuali parole:
“…mi rincrescerebbe, in
futuro, veder girare una vedovina per casa!” – riportavano le ultime righe
della missiva.
La lettura mi rese furioso e
m’intristì: Buccia, così era soprannominato, mi negava l’opportunità di
coronare il sogno inseguito così a lungo rammentandomi, allo stesso tempo,
l’assoluta incertezza del mio futuro di combattente.
A spron battuto, col sangue
che ribolliva nelle vene, mi recai al reparto radiotelegrafisti ed inviai un
telegramma alla povera Giorgina che a malapena era stata informata della mia
richiesta. Il testo del telegramma aveva un significato a dir poco definitivo:
“Tra noi tutto è finito!
Fatti sposare da tuo padre!”
Solo in seguito ho
realizzato quale possa essere stato l’effetto di quell’unica lapidaria riga
sull’animo turbato della ragazza, ma la rabbia che avevo in corpo mi precluse
qualsiasi opportunità di ragionare sull’accaduto.
Al ritorno tra i ranghi, col
cervello ancora in ebollizione, decisi di confidarmi coi fedeli compagni,
Ardeno ed Osvaldo, i quali erano al corrente della situazione e, soprattutto,
conoscevano sia Giorgina che il carattere del padre.
Entrambi si mostrarono molto
attaccati e premurosi ricordandomi le qualità di colei alla quale stavo
rinunciando per colpa delle problematiche di un padre così poco propenso alla
nostra relazione. Mentre mi rincuoravano, tessevano le lodi di Giorgina quale
fedele compagna, lavoratrice, massaia e verosimilmente affidabile madre dei
nostri futuri figli. Nelle loro lodi spassionate riconoscevo l’evoluzione della
bambina che avevo lasciato con la promessa di un futuro da condividere insieme.
Tutta la notte rimuginai
sulla situazione, sulla lettera di Buccia, sulle sincere parole dei fidi
compagni e, soprattutto, sull’immagine di lei, da cui non riuscii a distogliere
la mente fino al levar del sole. La notte insonne non fece che rafforzare il sentimento
che provavo nei confronti della bruna ragazzina campagnola e m’infuse la forza
di non mollare, malgrado l’opposizione del padre e la precarietà della mia
situazione di soldato in guerra.
Scrissi immediatamente una
nuova lettera, questa volta indirizzata a mia sorella Pasquina, nella quale
raccontavo dell’infelice scambio di corrispondenza con Buccia, della decisione
di sospendere la relazione e del telegramma in cui lo comunicavo a Giorgina. Al
contempo, però, le esternavo l’affetto immutato che provavo per lei e
l’intenzione di prestare poca considerazione alla sciagurata risposta del
genitore, promettendomi di dare finalmente un assetto definitivo alla
relazione, non appena il conflitto me ne avesse concessa l’opportunità. La
risposta di mia sorella giunse puntuale ed il suo significato si può riassumere
in un perentorio:
“Che aspetti a dirglielo?”
Nel giro di ventiquattr’ore
un nuovo telegramma partì dall’ufficio radio-telegrafisti del campo militare
alla volta dell’ufficio postale di Cecina e, quindi, di Collemezzano:
“Ti chiedo scusa! Tutto come
prima. Tuo per sempre… Tonino”.
…e,
dopo più di sessanta anni eccoci ancora qua!