domenica 10 marzo 2013

Sul massiccio del Tomorit



Eravamo ancora in guerra ed il campo base del 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” era allestito alla periferia di Elbassan, non distante dalle pendici del massiccio del Tomorit, sui Balcani. Tanto per dare l’idea, per raggiungere la costa a piedi, dal nostro campo base, erano necessari tre o quattro giorni. Il mio squadrone fu incaricato di rifornire di derrate alimentari i tomorit, albania, guerra mondiale, antonio volterrani, giorginacontingenti di carabinieri italiani che si trovavano in alta montagna e che erano impossibilitati a venire a prenderseli. Partimmo dal campo che era già buio pesto, in una gelida serata invernale. Ho ancora una fotografia che ci ritrae in una sosta diurna durante una di quelle marce: le coperte militari ci consentivano di ripararci in parte e per quanto possibile dal clima rigido inasprito anche dall’altitudine. Sulle cime più alte del massiccio del Tomorit, c’era neve anche di giugno.
La necessità di viaggiare di notte era dovuta al fatto che di giorno avremmo corso il rischio di essere scorti dai partigiani albanesi. Qualche cecchino, nascosto tra gli anfratti rocciosi non avrebbe esitato, di giorno, a farci oggetto di un tragico tiro a segno, se ci avesse scorti e, su per le mulattiere, con le possibilità di fuga ridotte a zero, avremmo fatto la fine del topo. Durante le soste giornaliere, allestite in campi di fortuna, laddove le mulattiere si concedevano spiazzi sufficientemente ampi, scorgevamo spesso filari di bocche da fuoco che spuntavano oltre i crinali.
In particolare, la prima volta che il mio plotone partecipò ad una missione del genere, l’apprensione, già di per se a livelli altissimi, raggiunse il limite di guardia quando scorgemmo, gli spiegamenti dei cannoni sopra le nostre teste. Nel proseguimento della marcia verso le zone più alte, tuttavia, nella notte successiva, aggirammo il crinale sul quale avevamo scorto le bocche da fuoco e, con nostro sollievo, scoprimmo che altro non si trattava se non di una mera messa in scena dei partigiani albanesi allo scopo di apparire ben più armati di quanto non lo fossero in realtà. Le minacciose sagome che tanto ci avevano spaventato si rivelarono innocui tubi di eternit e cemento che da lontano ingannavano come miraggi in pieno deserto. Dopo quella volta, ogni situazione del genere fu sempre valutata secondo un metro di giudizio ben meno preoccupante.
Una notte, la marcia proseguiva a cavallo, al passo, nel buio più assoluto e, di sottomano, ero seguito dal mulo carico di viveri che mi era stato affidato alla partenza. Se ripenso a quella sera, il sangue mi scorre a catinelle! Eravamo stanchissimi infreddoliti e, nonostante fossimo ormai avvezzi a missioni del genere, intimoriti dal buio assoluto in cui eravamo immersi. Quasi ai confini con la Grecia, lo squadrone a cavallo procedeva in fila indiana su per una delle tante mulattiere. La pallida luna ci consentiva a malapena di scorgere rari e lievi bagliori delle distanti cime innevate e la visibilità era drasticamente ridotta a pochi metri. La fila che mi precedeva si fermò ed io ne approfittai per smontare da cavallo e sedermi su un grosso masso che si trovava sul ciglio della strada, lato monte, subito imitato da coloro che mi seguivano. Il tempo di chiudere gli occhi e stiracchiare le membra rattrappite dalla scomoda posizione tenuta per tanto tempo, sulla sella della mia cavalcatura, giusto per rilassarmi un attimo, e mi sento scuotere da una vigorosa presa per le spalle. Mi ravvedo e noto che chi mi seguiva nella marcia, si sta agitando, indicando nervosamente verso la testa della fila. I cavalli che mi precedevano erano scomparsi alla vista, come inghiottiti dall’oscurità. Una voce, un grido. Nessuna risposta. Giovani ed inesperti ci sentimmo perduti, tuttavia riprendemmo la marcia di passo svelto, per quanto la scarsità di luce e gli animali a seguito ce lo permettevano, lungo la mulattiera, confidando di rientrare nei ranghi al più presto. Seguì una mezz’ora lunghissima durante la quale i pensieri più cupi si accavallavano nelle nostre menti tutt’altro che serene. La prospettiva di perdersi e, di conseguenza, il rischio di essere tacciati da disertori, era la più rosea. Le asperità del fondo stradale, oltretutto, non ci consentivano di accelerare il passo più di tanto, ritardando pericolosamente il tentativo di avvicinamento al resto del drappello. Gli zoccoli dei cavalli cozzavano contro la nuda pietra del pendio del monte, preso come riferimento per non finire nella scarpata, verso il lato opposto del viottolo. Il mulo ogni tanto dava segni di nervosismo, come turbato dall’insolita situazione, e s’impuntava testardamente rallentando ancor di più la marcia di avvicinamento. Ogni tanto affidavo un grido al buio davanti a me nella speranza, per lungo tempo vana, di ottenere una risposta. Come un’eco, i miei commilitoni spesso mi imitavano. Il cruccio di aver provocato lo smarrimento del drappello di uomini che mi seguivano nella marcia mi attanagliava lo stomaco e mi annebbiava la mente finché dietro un tornante, dopo l’ennesimo sbercio gettato nel nulla, una flebile risposta, un fischio, ci restituì la serenità di aver colmato lo svantaggio ed essersi ricongiunti al resto dello squadrone.
Nel buio pressoché assoluto, scoprii che gli ultimi della fila si erano accorti quasi subito della nostra assenza, tuttavia il passaparola aveva impiegato un sacco di tempo per raggiungere la testa della carovana e consentire all’ufficiale di fermare la marcia approfittando della situazione per una sosta ristoratrice, per come poteva essere ristoratrice una sosta in alta montagna, in pieno inverno ed in tempo di guerra.
Un paio d’ore dopo la ripresa della marcia, l’angusto viottolo si apriva in un ambito piuttosto ampio, occupato per gran parte dall’alveo di un modesto fiume, forse proprio lo Shkumbini o qualche suo affluente, poco più di un ruscello, a quell’altitudine. Lo squadrone procedeva più agevolmente quando, a un tratto, il comando della fila, sempre col solito metodo del passaparola, comunicava furtivamente al drappello di una situazione strana che si era creata, raccomandando ai soldati di cercare un nascondiglio in attesa che le acque si calmassero. Al punto della fila in cui mi trovavo io, non giunsero notizie del motivo per cui si era resa necessaria la nuova, imprevista sosta ma, a quei tempi, se ti dicono di nasconderti, è meglio che lo fai al più presto senza chiedere niente di più. La ricerca di un nascondiglio si rivelò più ardua del previsto. I radi cespugli che spuntavano sull’acciottolato del greto del fiume si riempirono in fretta allorché decisi di arridossarmi all’erta sponda più vicina alla mulattiera, indussi il fedele Alone a sdraiarsi sull’argine e mi rannicchiai per quanto mi fu possibile a ridosso della sella. Perfino i cavalli stavano in silenzio, come fossero coscienti della pericolosità della situazione. Non mi preoccupai del mulo, abbandonandolo al suo destino. Nell’insufficiente albore della pallida luna, le orecchie dritte e vigili a percepire anche il minimo rumore erano l’unica possibilità di avvertire l’eventuale pericolo imminente. La tensione era palpabile, col moschetto imbracciato ed il colpo in canna. Il cuore, in petto, sembrava impazzito. Il ritmo cardiaco era frenetico al punto di rendere impossibile il conteggio delle pulsazioni.
Man mano che l’udito si abituava ai rumori circostanti, quali lo scorrere sommesso del fiume e gl’inevitabili suoni della natura, si percepivano sempre di più quelli che si discostavano dalla normalità.
Gli schiocchi di ciottoli che si muovono l’uno sull’altro, come animati da passi di pesanti calzature, ci avevano messo in ansia al punto che io smisi addirittura di respirare, per timore di rivelare il mio nascondiglio. Purtroppo non potevo indurre il cavallo a trattenere il respiro affannoso, ma mi consolava il fatto che anche gli altri commilitoni erano nella mia identica situazione. Il rumore continuava costante, ma sembrava non avvicinarsi. Presa confidenza con l’insolito effetto acustico, ci facemmo più audaci e, silenziosamente, alcuni di noi si avvicinarono alla presunta fonte del segnale. Anch’io mi accodai: abbandonai temporaneamente il cavallo, che spontaneamente si rimise sulle quattro zampe emettendo un sommesso sbuffo dalle froge umide, e mi unii cautamente al drappello in perlustrazione. Moschetto alle mani e chino sulla schiena, gli schiocchi si facevano sempre più netti, pur oramai confusi con quelli provocati dalle nostre calzature anfibie. La grottesca situazione che si presentò ai nostri occhi fu tale da scioglierci ed indurci ad una delle rarissime risate che la situazione contingente ci ha concesso.
Rischiarate da un paio di accendini a benzina, due tartarughe di terra dall’enorme carapace si stavano concedendo alle pratiche amorose e gli schiocchi che ci avevano reso tanto apprensivi, sì da indurre lo squadrone ad una sosta imprevista, non erano altro che il risultato dei due gusci che cozzavano l’un l’altro, accompagnati dalle pietre del greto che si muovevano sotto le poderose zampe. Non avevo mai visto tartarughe così grandi e, date le poco rassicuranti premesse, fui davvero lieto di scoprirle in un frangente come quello. La grottesca situazione aveva assunto per noi il limite della presa in giro: mentre noi eravamo in ansia per quegli strani e ben poco rassicuranti rumori, queste stavano tranquillamente amoreggiando alla faccia nostra.
Non sono mai riuscito a capire fino in fondo se la reale cagione della forzata sosta sia stata la veemenza delle pesanti tartarughe o piuttosto qualcosa di più serio avvertito dalla testa del plotone. Il fatto è che, nel silenzio, noi ci eravamo veramente spaventati per gl’insoliti rumori e, accertatane la natura ci eravamo finalmente rincuorati. È possibile che, nel frattempo, anche la minaccia percepita dal comando del manipolo fosse passata, ma nessuno si è mai degnato di fornirci una spiegazione in proposito.
Nel percorso di ritorno, al termine di una delle numerose escursioni, catturammo un esemplare delle mitiche tartarughe che caricammo sul mulo per portarcela al campo base di Elbassan. La testuggine aveva un aspetto massiccio e potente ed un giorno abbastanza tranquillo, dal punto di vista delle manovre militari, la curiosità ci spinse a saggiarne la prestanza fisica. Non ricordo chi di noi ingabbiò il carapace in una rete di corda che poi legò al paraurti anteriore di una Fiat Topolino del plotone comando: da non credere. La tartaruga fu in grado di trascinare agevolmente la vettura per diversi metri, e chissà dove l’avrebbe trainata, se non l’avessimo liberata dalla costrizione delle corde intrecciate.