venerdì 4 ottobre 2013

Distrazioni


La sera, nel campo di Elbassan, le ore trascorrevano all’insegna della monotonia e, di conseguenza, il tempo non passava mai.
Lasciando stare quando, stanchi per i lavori pesanti eseguiti durante il giorno o di ritorno da una missione, non vedevamo l’ora di coricarci in branda, nelle sere un po’ più tranquille non c’era veramente niente da fare e le distrazioni erano del tutto assenti. La città era un miraggio proibito ed i militari come noi erano invisi dalla maggior parte dei cittadini. I pochi colleghi che, da più tempo di noi, occupavano il campo non contribuivano certo a soddisfare le nostre richieste di qualcosa di nuovo.
Alcune circostanze, comunque, ci avevano da tempo insospettito: molti di quei militari spesso, dopo il rancio della sera, sparivano misteriosamente dalla circolazione e non si trovavano neanche a seguito di reiterate ricerche. Con Ardeno, Osvaldo e gli altri decidemmo di drizzare le orecchie in quanto, la mattina che seguiva le misteriose sparizioni, i commilitoni in questione apparivano più sereni e distesi.
Una sera, abbandonato il mio alloggio in selleria e raggiunti i compagni nella loro tenda, come di consueto ci preparavamo per la solita noiosissima partita a tre sette, briscole e scopa quando il caporale della nostra squadra entrò trafelato dal telo aperto sollevando un polverone che scatenò le ire degli occupanti.
«Ragazzi: ho scoperto finalmente dove i nostri colleghi anziani trascorrono molte delle loro serate». Ci comunicò sorridendo.
L’appellativo “anziani” non si riferiva propriamente all’età dei commilitoni quanto, piuttosto, all’anzianità di servizio, soprattutto in relazione alla loro permanenza in Albania.
Bene! Il caporale ci raccontò di aver avuto la soffiata da un fidato compagno anziano, caporalmaggiore, col quale condivideva la tenda. Si diceva che, a poca distanza dal nostro campo, forse meno di un chilometro, poco prima dell’abitato di Elbassan, l’Esercito Italiano aveva allestito una casa di appuntamenti in un casolare isolato, proprio allo scopo di distogliere le giovani menti dei militari dalle difficoltà che erano costretti ad affrontare quotidianamente. La ciliegina sulla torta era rappresentata dal fatto che tutte le signorine prestatrici d’opera presso la casa in questione erano italiane e, di conseguenza, ancora più appetibili in quanto ancore a cui appigliarsi per un’immaginaria capatina in patria.
A dire la verità i sentori di questa che per noi era una novità assoluta, si erano avvertiti già da qualche tempo. Ogni due settimane, di sabato mattina, infatti, ci era precluso l’utilizzo dell’infermeria del campo, adducendo a fantomatiche visite di civili estranei al campo stesso tuttavia di origine italiana e quindi con il pieno diritto di usufruire delle strutture militari. Durante quelle mattinate, erano frequenti le visite in infermeria di personaggi femminili, piuttosto ben vestiti ma apparentemente insospettabili dal nuovo punto di vista prospettatoci dal nostro caporale.
Appresa la notizia, fu semplice collegare le prestazioni delle signorine residenti nel casale alle bisettimanali visite sanitarie del sabato mattina.
Volarono le bustine grigioverdi ed i mazzi di carte furono abbandonati al loro destino sul nudo tavolaccio allorché decidemmo di recarci a far visita alla casa in questione. Il caporale, tuttavia, pur fremendo anch’egli per l’impazienza, ci consigliò di attendere un paio di sere in modo tale da non creare la ressa sull’uscio del “parco dei divertimenti”.
Eravamo a dicembre del ’42 e prendemmo in considerazione la proposta del diversivo come un inatteso regalo della sorte in occasione dell’incipiente Natale.
Dopo un iniziale motto di sfrenata allegria, contagiato dall’entusiasmo dei compagni e stimolato dalla prolungata astinenza, il pensiero fuggì immediatamente a casa, dove la mia cara stava aspettando il ritorno del suo soldato. Un alone di mestizia mi avvolse per averla tradita, almeno col pensiero. Ricordo che trascorsi i due giorni che precedettero la visita dei miei compagni al parco dei divertimenti a combattere tra l’amore sincero e profondo che provavo per Giorgina e la necessità, soprattutto fisica, di soddisfare l’irrefrenabile istinto carnale e gli ormoni repressi dei ventitrè anni compiuti da poco. Se si aggiungono le ristrettezze della situazione contingente, la lontananza da casa e la totale carenza di affetti, al di là delle amicizie consolidate dalla guerra, il gioco è fatto. Anche Osvaldo, che tra l’altro era già sposato, si dimostrò coerente al sentimento ed al rispetto che provava per la giovanissima congiunta e devo dire che, a caso ripensato, non è che la notizia ci risolse troppo la situazione riguardante la carenza di diversivi.
Resistemmo più a lungo di quanto avremmo potuto immaginare, alla tentazione di unirci allo stuolo dei nostri commilitoni che usufruivano costantemente delle prestazioni delle ragazze italiane. Poi, il pranzo “luculliano” del giorno di Natale del 42, abbatté definitivamente gli ultimi freni inibitori.
Da alcuni giorni l’ambiente era piuttosto tranquillo e non erano previste missioni o ronde, eccezion fatta per le normali perlustrazioni quotidiane nei dintorni del campo ed i servizi di sentinella lungo il perimetro dell’accampamento. Il comando prese la giusta decisione di riservare ai soldati un trattamento speciale per l’occasione ed ordinò alle cucine del campo di dare fondo alle risorse alimentari per organizzare qualcosa di diverso dal giornaliero, monotono rancio. Non ci servirono né lasagne né arrosto di capretto, ma una saporita zuppa di verdura ed uno spezzatino di manzo con le patate (a dire la verità più patate che manzo) furono accolti con grande entusiasmo dalla truppa al completo. Quello che fu più apprezzato, comunque, fu un fiume di vino rosso italiano che probabilmente il plotone comando teneva in serbo per le occasioni migliori e, vista la ricorrenza, aveva deciso di elargirlo ai soldati.
Il pranzo e, soprattutto, il vino frantumarono definitivamente ogni freno inibitore ed il pomeriggio di Natale il casino fu letteralmente preso d’assalto. Osvaldo ed io cantavamo, durante il breve percorso che divideva il campo dalla meta della nostra gita.
Percuotemmo il pesante batacchio del grande portone di legno massiccio e, dopo pochi istanti, un’anziana e grassa signora con una parrucca di stoppa cotonata, truccata all’eccesso e con la sigaretta accesa che spenzolava dall’angolo delle labbra ci venne ad aprire. Un profumo di borotalco misto ad altre essenze dolciastre mi colpì le narici, per niente avvezze a certi effluvi, e contribuì a farmi rompere definitivamente gl’indugi. La signora, senza una parola e con atteggiamento deciso, con la testa ci fece cenno di entrare e richiuse faticosamente il pesante portone.
Il vasto salone si aprì ai miei occhi dopo aver percorso un breve andito vagamente arredato da drappi purpurei. Ampi divani di stoffa arabescata, anch’essi rossi, accoglievano comodamente diversi militari frementi, in attesa del loro turno. La cosa non mi piacque e generò una specie di motto di repulsione placato, però, dall’insistenza dei compagni e dalle loro battute che mettevano in dubbio le mie capacità e, soprattutto, i miei gusti riguardo all’argomento sessuale. L’anziana signora, la maitresse, ci fece accomodare su un divano e ci servì un bicchierino di sambuca pretendendo, in cambio, il pagamento anticipato della prestazione, in lire italiane.
Trascorremmo un’oretta a ridere, scherzare e fantasticare sull’imminente prova. Di quando in quando le ragazze, seminude e truccate oltremisura, facevano il loro ingresso nel salone, sculettando a destra e a manca, ed allungavano provocanti le mani agitando le dita ad invitare il consumatore di turno. Apparivano tutte bellissime tuttavia una di loro, sicuramente più grande di me, ma non di molto, mi colpì in maniera particolare. Era alta ed era la più bella: in cuor mio speravo di trascorrere proprio con lei il tempo a mia disposizione. I ricci corvini, adornati da una passata rossa sormontata da un generoso fiocco, incorniciavano il viso pallido, magro ed affilato su cui risaltavano gli sfavillanti occhi nerissimi eccessivamente truccati da un rimmel violaceo. Il piccolo naso alla francese indirizzava lo sguardo verso la bocca sottile e finemente smerlata, pur se sgraziata da un eccesso di rossetto color carminio, e spartiva gli zigomi leggermente sporgenti ed imporporati da appariscente belletto. Il lungo collo da airone guidava verso il petto prominente ed il corpo sinuoso e leggero inguainato da un bustino color amaranto rifinito da trine nere, mentre le gambe lunghe, tornite ed i piccoli piedi scalzi fluttuavano sull’ambiente dolciastro del salone d’attesa.
Forse tradito dall’emozione, avevo l’impressione che, ogni volta che faceva il suo ingresso nel salone, prima di proporsi all’ospite di turno, puntasse lo sguardo dritto nei miei occhi come a dire: “Aspettami, tra poco sarò da te”.
Giunse il mio turno. Cercavo con lo sguardo la bella signorina che, però, non si presentò. Rinunciai all’invito della prima donnina che mi propose i propri servigi, sperando di avere maggior fortuna con la successiva. Rinunciai ad altre due proposte, scatenando le rimostranze e le ire della megera allorché, finalmente, dal fondo del corridoio, comparse ondeggiando l’obiettivo del mio desiderio.
Avanzava sinuosa: puntava dritta verso di me provocando emozioni che accelerarono freneticamente il mio ritmo cardiaco. Mi prese per mano e mi condusse nella propria camera. La porta di legno scuro introduceva in una stanza dalle pareti recentemente dipinte di bianco e scarsamente arredata. Un letto a due piazze rifatto alla meglio, a testimonianza degli avvenimenti del recentissimo passato, ed un comodino erano disposti proprio di fronte alla porta d’ingresso. Un piccolo armadio sgangherato sulla destra, vicino alla finestra chiusa, un lavabo bianco striato d’azzurro a ridosso della parete opposta ed un misero attaccapanni in ferro battuto nero, accanto al lavabo, completavano l’essenziale arredamento della camera. L’illuminazione era garantita da un piccolo lampadario in venato legno d’ulivo, a tre luci, appeso al centro del soffitto.
Che cosa avvenne dopo è facilmente intuibile. In quel breve lasso di tempo, un po’ per l’ebbrezza del vino, un po’ per il resto, dimenticai tutto ciò che esisteva oltre le quattro mura di quella stanza ed approfittai inerme delle generose effusioni di quella rara bellezza verosimilmente costretta dalle circostanze al davvero poco edificante, pur benaccetto, servizio.
Credo di aver trascorso nella camera della ragazza più di mezz’ora, ma spendemmo i piacevoli minuti conclusivi, esclusivamente a parlare di me e di lei, che continuava a coprirmi il viso di morbide carezze. Alla fine, mi chiese di ritornare, per approfondire la nostra conoscenza e mi salutò con un’ultima dolce carezza.
All’uscita dalla camera, immancabili, le rimostranze della stopposa parrucca bionda, che sputava rimbrotti dall’angolo di labbra non impegnato a trattenere la sigaretta, e dei militari in attesa sul divano: a quanto pare avevo approfittato un po’ troppo della disponibilità della ragazza, ma che ne sapevo io di quanto si deve stare nella camera di un casino? Io ero rimasto finché ne avevo avuta voglia, la ragazza dimostrava di gradire la mia compagnia, perché mai avrei dovuto avere fretta di uscire?

Non le dissi il mio nome, nonostante le sue insistenti richieste, e non pretesi il suo. Non ho neanche mai saputo che fine abbia fatto dopo quell’unico pomeriggio di Natale. Schivavo perfino i dintorni dell’infermeria, nei giorni in cui le ragazze venivano al campo per gli opportuni accertamenti sanitari, evitando così che la vista della sua persona potesse scatenare in me la tentazione di riprovarci.Distrazioni

domenica 10 marzo 2013

Sul massiccio del Tomorit



Eravamo ancora in guerra ed il campo base del 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato” era allestito alla periferia di Elbassan, non distante dalle pendici del massiccio del Tomorit, sui Balcani. Tanto per dare l’idea, per raggiungere la costa a piedi, dal nostro campo base, erano necessari tre o quattro giorni. Il mio squadrone fu incaricato di rifornire di derrate alimentari i tomorit, albania, guerra mondiale, antonio volterrani, giorginacontingenti di carabinieri italiani che si trovavano in alta montagna e che erano impossibilitati a venire a prenderseli. Partimmo dal campo che era già buio pesto, in una gelida serata invernale. Ho ancora una fotografia che ci ritrae in una sosta diurna durante una di quelle marce: le coperte militari ci consentivano di ripararci in parte e per quanto possibile dal clima rigido inasprito anche dall’altitudine. Sulle cime più alte del massiccio del Tomorit, c’era neve anche di giugno.
La necessità di viaggiare di notte era dovuta al fatto che di giorno avremmo corso il rischio di essere scorti dai partigiani albanesi. Qualche cecchino, nascosto tra gli anfratti rocciosi non avrebbe esitato, di giorno, a farci oggetto di un tragico tiro a segno, se ci avesse scorti e, su per le mulattiere, con le possibilità di fuga ridotte a zero, avremmo fatto la fine del topo. Durante le soste giornaliere, allestite in campi di fortuna, laddove le mulattiere si concedevano spiazzi sufficientemente ampi, scorgevamo spesso filari di bocche da fuoco che spuntavano oltre i crinali.
In particolare, la prima volta che il mio plotone partecipò ad una missione del genere, l’apprensione, già di per se a livelli altissimi, raggiunse il limite di guardia quando scorgemmo, gli spiegamenti dei cannoni sopra le nostre teste. Nel proseguimento della marcia verso le zone più alte, tuttavia, nella notte successiva, aggirammo il crinale sul quale avevamo scorto le bocche da fuoco e, con nostro sollievo, scoprimmo che altro non si trattava se non di una mera messa in scena dei partigiani albanesi allo scopo di apparire ben più armati di quanto non lo fossero in realtà. Le minacciose sagome che tanto ci avevano spaventato si rivelarono innocui tubi di eternit e cemento che da lontano ingannavano come miraggi in pieno deserto. Dopo quella volta, ogni situazione del genere fu sempre valutata secondo un metro di giudizio ben meno preoccupante.
Una notte, la marcia proseguiva a cavallo, al passo, nel buio più assoluto e, di sottomano, ero seguito dal mulo carico di viveri che mi era stato affidato alla partenza. Se ripenso a quella sera, il sangue mi scorre a catinelle! Eravamo stanchissimi infreddoliti e, nonostante fossimo ormai avvezzi a missioni del genere, intimoriti dal buio assoluto in cui eravamo immersi. Quasi ai confini con la Grecia, lo squadrone a cavallo procedeva in fila indiana su per una delle tante mulattiere. La pallida luna ci consentiva a malapena di scorgere rari e lievi bagliori delle distanti cime innevate e la visibilità era drasticamente ridotta a pochi metri. La fila che mi precedeva si fermò ed io ne approfittai per smontare da cavallo e sedermi su un grosso masso che si trovava sul ciglio della strada, lato monte, subito imitato da coloro che mi seguivano. Il tempo di chiudere gli occhi e stiracchiare le membra rattrappite dalla scomoda posizione tenuta per tanto tempo, sulla sella della mia cavalcatura, giusto per rilassarmi un attimo, e mi sento scuotere da una vigorosa presa per le spalle. Mi ravvedo e noto che chi mi seguiva nella marcia, si sta agitando, indicando nervosamente verso la testa della fila. I cavalli che mi precedevano erano scomparsi alla vista, come inghiottiti dall’oscurità. Una voce, un grido. Nessuna risposta. Giovani ed inesperti ci sentimmo perduti, tuttavia riprendemmo la marcia di passo svelto, per quanto la scarsità di luce e gli animali a seguito ce lo permettevano, lungo la mulattiera, confidando di rientrare nei ranghi al più presto. Seguì una mezz’ora lunghissima durante la quale i pensieri più cupi si accavallavano nelle nostre menti tutt’altro che serene. La prospettiva di perdersi e, di conseguenza, il rischio di essere tacciati da disertori, era la più rosea. Le asperità del fondo stradale, oltretutto, non ci consentivano di accelerare il passo più di tanto, ritardando pericolosamente il tentativo di avvicinamento al resto del drappello. Gli zoccoli dei cavalli cozzavano contro la nuda pietra del pendio del monte, preso come riferimento per non finire nella scarpata, verso il lato opposto del viottolo. Il mulo ogni tanto dava segni di nervosismo, come turbato dall’insolita situazione, e s’impuntava testardamente rallentando ancor di più la marcia di avvicinamento. Ogni tanto affidavo un grido al buio davanti a me nella speranza, per lungo tempo vana, di ottenere una risposta. Come un’eco, i miei commilitoni spesso mi imitavano. Il cruccio di aver provocato lo smarrimento del drappello di uomini che mi seguivano nella marcia mi attanagliava lo stomaco e mi annebbiava la mente finché dietro un tornante, dopo l’ennesimo sbercio gettato nel nulla, una flebile risposta, un fischio, ci restituì la serenità di aver colmato lo svantaggio ed essersi ricongiunti al resto dello squadrone.
Nel buio pressoché assoluto, scoprii che gli ultimi della fila si erano accorti quasi subito della nostra assenza, tuttavia il passaparola aveva impiegato un sacco di tempo per raggiungere la testa della carovana e consentire all’ufficiale di fermare la marcia approfittando della situazione per una sosta ristoratrice, per come poteva essere ristoratrice una sosta in alta montagna, in pieno inverno ed in tempo di guerra.
Un paio d’ore dopo la ripresa della marcia, l’angusto viottolo si apriva in un ambito piuttosto ampio, occupato per gran parte dall’alveo di un modesto fiume, forse proprio lo Shkumbini o qualche suo affluente, poco più di un ruscello, a quell’altitudine. Lo squadrone procedeva più agevolmente quando, a un tratto, il comando della fila, sempre col solito metodo del passaparola, comunicava furtivamente al drappello di una situazione strana che si era creata, raccomandando ai soldati di cercare un nascondiglio in attesa che le acque si calmassero. Al punto della fila in cui mi trovavo io, non giunsero notizie del motivo per cui si era resa necessaria la nuova, imprevista sosta ma, a quei tempi, se ti dicono di nasconderti, è meglio che lo fai al più presto senza chiedere niente di più. La ricerca di un nascondiglio si rivelò più ardua del previsto. I radi cespugli che spuntavano sull’acciottolato del greto del fiume si riempirono in fretta allorché decisi di arridossarmi all’erta sponda più vicina alla mulattiera, indussi il fedele Alone a sdraiarsi sull’argine e mi rannicchiai per quanto mi fu possibile a ridosso della sella. Perfino i cavalli stavano in silenzio, come fossero coscienti della pericolosità della situazione. Non mi preoccupai del mulo, abbandonandolo al suo destino. Nell’insufficiente albore della pallida luna, le orecchie dritte e vigili a percepire anche il minimo rumore erano l’unica possibilità di avvertire l’eventuale pericolo imminente. La tensione era palpabile, col moschetto imbracciato ed il colpo in canna. Il cuore, in petto, sembrava impazzito. Il ritmo cardiaco era frenetico al punto di rendere impossibile il conteggio delle pulsazioni.
Man mano che l’udito si abituava ai rumori circostanti, quali lo scorrere sommesso del fiume e gl’inevitabili suoni della natura, si percepivano sempre di più quelli che si discostavano dalla normalità.
Gli schiocchi di ciottoli che si muovono l’uno sull’altro, come animati da passi di pesanti calzature, ci avevano messo in ansia al punto che io smisi addirittura di respirare, per timore di rivelare il mio nascondiglio. Purtroppo non potevo indurre il cavallo a trattenere il respiro affannoso, ma mi consolava il fatto che anche gli altri commilitoni erano nella mia identica situazione. Il rumore continuava costante, ma sembrava non avvicinarsi. Presa confidenza con l’insolito effetto acustico, ci facemmo più audaci e, silenziosamente, alcuni di noi si avvicinarono alla presunta fonte del segnale. Anch’io mi accodai: abbandonai temporaneamente il cavallo, che spontaneamente si rimise sulle quattro zampe emettendo un sommesso sbuffo dalle froge umide, e mi unii cautamente al drappello in perlustrazione. Moschetto alle mani e chino sulla schiena, gli schiocchi si facevano sempre più netti, pur oramai confusi con quelli provocati dalle nostre calzature anfibie. La grottesca situazione che si presentò ai nostri occhi fu tale da scioglierci ed indurci ad una delle rarissime risate che la situazione contingente ci ha concesso.
Rischiarate da un paio di accendini a benzina, due tartarughe di terra dall’enorme carapace si stavano concedendo alle pratiche amorose e gli schiocchi che ci avevano reso tanto apprensivi, sì da indurre lo squadrone ad una sosta imprevista, non erano altro che il risultato dei due gusci che cozzavano l’un l’altro, accompagnati dalle pietre del greto che si muovevano sotto le poderose zampe. Non avevo mai visto tartarughe così grandi e, date le poco rassicuranti premesse, fui davvero lieto di scoprirle in un frangente come quello. La grottesca situazione aveva assunto per noi il limite della presa in giro: mentre noi eravamo in ansia per quegli strani e ben poco rassicuranti rumori, queste stavano tranquillamente amoreggiando alla faccia nostra.
Non sono mai riuscito a capire fino in fondo se la reale cagione della forzata sosta sia stata la veemenza delle pesanti tartarughe o piuttosto qualcosa di più serio avvertito dalla testa del plotone. Il fatto è che, nel silenzio, noi ci eravamo veramente spaventati per gl’insoliti rumori e, accertatane la natura ci eravamo finalmente rincuorati. È possibile che, nel frattempo, anche la minaccia percepita dal comando del manipolo fosse passata, ma nessuno si è mai degnato di fornirci una spiegazione in proposito.
Nel percorso di ritorno, al termine di una delle numerose escursioni, catturammo un esemplare delle mitiche tartarughe che caricammo sul mulo per portarcela al campo base di Elbassan. La testuggine aveva un aspetto massiccio e potente ed un giorno abbastanza tranquillo, dal punto di vista delle manovre militari, la curiosità ci spinse a saggiarne la prestanza fisica. Non ricordo chi di noi ingabbiò il carapace in una rete di corda che poi legò al paraurti anteriore di una Fiat Topolino del plotone comando: da non credere. La tartaruga fu in grado di trascinare agevolmente la vettura per diversi metri, e chissà dove l’avrebbe trainata, se non l’avessimo liberata dalla costrizione delle corde intrecciate.