Nei dintorni di Elbassan, il campo militare era ben organizzato, tanto da dare l’impressione di una vera e propria caserma viaggiante. All’arrivo, dopo un elaborato guado del fiume Shkumbini, al quale io non partecipai a causa del ricovero dovuto agli orecchioni, il reggimento si trovò in un campo in parte allestito, per lo meno nelle strutture principali quali il reparto comando, i tendoni della cucina e della mensa, la fureria e tutto il resto. Per quello che posso ricordare, la prima impressione al mio arrivo al campo, qualche giorno dopo il resto della compagnia, fu quella di aver sostituito un reparto che già aveva dato il suo contributo nella campagna d’Albania. I miei compagni mi informarono che l’allestimento delle tende per gli alloggi personali, la cosa più urgente da fare dopo l’arrivo, fu meno impegnativa delle precedenti in quanto le aree erano già state assegnate ed organizzate dai predecessori.
Col passare dei giorni, venimmo a sapere che il campo era stato allestito fin dall’anno prima, o forse da quello ancora precedente, allorché il primo contingente di truppe italiane si era installato nella zona.
In condizioni per così dire “normali”, centinaia di cavalleggeri ed altrettante cavalcature si muovevano come formiche all’interno dell’accampamento. L’equipaggiamento tecnico a supporto del campo era costituito da qualche camionetta, alcune scassate motociclette, pochi mezzi pesanti e, soprattutto, una moltitudine di fedeli muli, un aiuto indispensabile nel trasportare i pesi più onerosi durante gli spostamenti.
Le giornate passavano lentissime ma inesorabili e le missioni d’appoggio alle truppe distaccate sul massiccio del Tomorit, verso il confine con la Grecia settentrionale o quello con la parte più a sud-ovest della Jugoslavia (quella che oggi chiamiamo Macedonia) occupavano la maggior parte del nostro tempo. Negl’intervalli tra una missione e l’altra, l’impegno preponderante consisteva nel preparare gli approvvigionamenti, alimentari e militari, per le truppe più vicine di noi al fronte, anche se non si può parlare di fronte vero e proprio, nella campagna d’Albania. Giornalmente, il servizio di ricognizione impegnava una cinquantina di soldati e prevedeva ronde nei dintorni dell’accampamento allo scopo di verificare che nessuno dei gruppi partigiani albanesi si preparasse a qualche sortita che mettesse a repentaglio le sorti del Reggimento. Quando partivamo per le ricognizioni, la cui durata variava da un paio di giorni ad una settimana, in relazione alla lunghezza ed all’asperità del percorso assegnato, il cavallo assumeva un’importanza fondamentale nel trasporto degli approvvigionamenti personali e del materiale necessario ad allestire un improvvisato campo notturno. Il fedele Alone mi accompagnava sempre nelle rare occasioni in cui ho dovuto partecipare a missioni del genere. Il mio grande cavallo nero era instancabile ed estremamente affidabile al limite, non trascurabile, di assumere il ruolo di fedele confidente, durante i non rari momenti di sconforto e malinconia. Nel corso delle solitarie ronde notturne, spesso mi trovavo a parlare col cavallo ormai assunto al ruolo di fedele, inseparabile amico. Ho decisamente confidato più paure, trepidazioni, ansie e segreti ad Alone in quei lunghi mesi, che a mia madre nell’intervallo di tempo in cui ho condiviso la mia esistenza con lei!
Anche nei momenti di riposo ed apparentemente sereni, la cavalcatura assumeva, per ognuno di noi, l’amico affezionato, il muto confidente cui riporre ogni cruccio, capace di rincuorarti con un semplice sbuffo dalle froge umide, uno scatto deciso della testa o lo scalpiccio dello zoccolo sulla nuda terra. Al pari dell’amico del cuore, infatti, era sufficiente un’energica strigliata od una semplice carezza sul muso ossuto per ripagarlo dell’affetto concesso. Alone è il ricordo più rassicurante di quell’esperienza militare, a Voghera prima ed ancor di più al di là dell’Adriatico.
Al campo di Elbassan, tanto per cambiare, mi ero ricavato un angolo d’intimità personale all’interno del tendone allestito a selleria ma l’impegno delle ricognizioni o, peggio, quello di rifornire le truppe o di riparare le connessioni telegrafiche e telefoniche coinvolgeva inevitabilmente anche me. Raramente capitavano missioni di collegamento con altri campi militari sparpagliati per l’Albania.
Un giorno dell’estate del quarantadue, il fedele compagno Ardeno, fu convocato dal plotone comando che gli affidò un messaggio urgente da consegnare ad un contingente dell’Esercito Italiano distaccato nel nord dell’Albania, a diversi chilometri dal nostro campo. Allo scopo di risolvere in fretta la missione, gli fu affidata una motocicletta, una Moto Guzzi dal colore beige e piuttosto sconquassata, equipaggiata con carrozzetta per il passeggero a seguito. Prima della partenza, Ardeno ritenne giustamente che la carrozzetta, di per sé inutile alla missione, sarebbe stata d’intralcio durante il tortuoso tragitto ai piedi delle montagne e chiese perciò al comando l’autorizzazione a rimuoverla. Mi unii a lui e l’operazione c’impegnò per un paio d’ore, ma il risultato fu soddisfacente: la Guzzi aveva assunto un assetto più filante ed assolutamente più maneggevole al punto da indurre Ardeno a sorridere, al pensiero di utilizzarla per la missione che lo avrebbe impegnato nei giorni successivi. Con le mani ancora sporche di unto, Ardeno impugnò il manubrio ed assestò una potente pedalata: dalle marmitte arrugginite scaturì uno sbuffo di fumo denso ed il rombo corposo del propulsore monocilindrico colpì le nostre orecchie. Il grande volano dalla corona cromata girava ritmicamente ad ogni colpo di acceleratore assecondando gli scoppi regolari del propulsore.
In tempi di pace, dalle nostre parti, farsi vedere in giro con una moto di tale portata ci avrebbe dato una soddisfazione senza pari, che in parte si manifestò in quello spontaneo compiacimento.
Ardeno partì per la missione all’alba di uno dei primi giorni di luglio e sarebbe dovuto rientrare al campo di lì ad una settimana. La tortuosità del percorso, tuttavia, rallentò la marcia dell’amico che non si fece vivo per i successivi dieci giorni facendoci, tra l’altro, temere che gli fosse capitato qualcosa di spiacevole.
Al ritorno Ardeno, dopo aver consegnato la motocicletta al reparto motorizzato ed il messaggio di risposta al plotone comando, venne a trovarmi in selleria e, tra gli altri, mi raccontò di essere stato vittima di un episodio dal quale si era brillantemente tratto d’impaccio.
Un paio di giorni prima, percorrendo una strada dissestata in mezzo ad una distesa di campi da poco mietuti, si era accorto che lo pneumatico anteriore della moto era forato. Percorsi pochi chilometri con la motocicletta che sbandava pericolosamente, si era trovato nella necessità di porre rimedio all’inconveniente. Privo di qualsiasi mezzo che gli consentisse di riparare lo pneumatico forato, un’idea si faceva lentamente strada nei meandri del suo cervello vulcanico.
Mentre raccontava, aveva ancora la faccia sporca di fuliggine mista a polvere e soltanto gli occhi erano circondati da un alone apparentemente pulito, essendo stati sufficientemente protetti dagli occhiali allacciati, sulla nuca, da una robusta fascia di cuoio ed una fibbia d’ottone. La maschera bianca, in netto contrasto col resto della faccia e coi capelli scarruffati, gli conferiva un aspetto davvero buffo cosicché il racconto assunse tratti al limite del grottesco.
«Ho appoggiato la Guzzi all’argine di un fossetto che separava la strada dal campo e, con la baionetta, ho fatto un taglio di quattro o cinque centimetri sulla sommità del battistrada della gomma forata.» Raccontava eccitato «Poi ho riempito la gomma della paglia che ho trovato in abbondanza sul campo da poco mietuto. Vista l’impossibilità di riempire del tutto lo pneumatico dall’angusta apertura praticata sul battistrada, ho fatto altri due tagli equidistanti ed ho continuato a riempire finché ho potuto, ed eccomi qua!» concluse compiaciuto.
«Che ti hanno detto, quando hai riconsegnato la Guzzi?» gli domandai sorridendo per la stramberia, credendo a stento al racconto dell’amico pur confidando nella sua riconosciuta affidabilità.
«Inizialmente i meccanici mi hanno preso in giro. Ridevano. Capirai, vedersi arrivare in officina la moto con ciuffi di paglia che spuntano dal cerchione, non è cosa da tutti i giorni! Poi, quando ho raccontato l’episodio, hanno finito per complimentarsi con me per la brillante trovata».
Come si dice: la necessità aguzza l’ingegno ed Ardeno aveva messo a frutto l’estrema duttilità del suo genio anche in quella situazione così precaria.