domenica 13 maggio 2012

Durazzo-Tirana-Elbassan


Approdammo sulla spiaggia di Durazzo attorno a mezzogiorno ed il resto della giornata fu insufficiente a completare le complicate operazioni di sbarco attraverso la rampa di poppa del nostro mezzo, la motonave “Italia”. Solo il mio squadrone era composto di circa 170 unità e tenendo in albania,seconda guerra mondiale,antonio volterraniconsiderazione che il Reggimento era costituito, in tutto, da tre squadroni completi, due incompleti ed il plotone comando, ci si può facilmente rendere conto della complessità delle operazioni di sbarco. In tutto sbarcammo in più di seicento e quasi altrettanti animali. Per prima cosa, stendemmo una ragnatela di cavi tra i rami più robusti delle piante, in maggior parte tamerici, che coronavano la parte più interna della spiaggia. Una volta assicurati i cavalli, allestimmo in fretta un campo di tende e baracche sufficienti ad ospitare tutto il reggimento.
Io alloggiavo, da solo, nell’ampia baracca allestita a selleria e, come i miei colleghi, dormivo sulla copertina leggera del corredo militare, a diretto contatto con la sabbia sottostante. Durante la notte, pressoché insonne, un grave senso di spossatezza mi assalì progressivamente e, al segnale di sveglia del trombettiere del Reggimento, mi resi presto conto che qualcosa non andava per il verso giusto. Riuscii a stento a mettermi a sedere che tutta la baracca, gli attrezzi e le selle, presero a girare vorticosamente, costringendomi, mio malgrado, a coricarmi di nuovo, in preda ad una febbre da cavallo, tanto per rimanere in tema. Qualche minuto più tardi, fui costretto a prendere il coraggio a quattro mani per non incorrere in qualche punizione dovuta all’assenza dall’adunata mattutina e provai ad alzarmi in piedi: alla bell’è meglio, riuscii a rassettare la divisa, a calzare gli scarponi anfibi e trascinarmi fuori dalla baracca. Traballavo sulle gambe, instabile come un infante ai suoi primi incerti passi verso la vita. Oltrepassato il limite della baracca, sotto gli occhi di un ufficiale che passava di lì per recarsi nella zona dove si svolgeva l’adunata, stramazzai al suolo sulla sabbia fredda. Il capitano mi prestò aiuto e, vedendomi rosso in faccia, con le guance gonfie come un criceto che abbia mangiato a sazietà, mi accompagnò all’infermeria del campo dove l’ufficiale medico mi sottopose ad una visita completa.
«Parotite acuta!» sentenziò il graduato.
La mia ignoranza in materia medica, m’impedì di comprendere subito il significato della diagnosi del dottore il quale, notando la mia faccia perplessa, ribadì:
«Orecchioni! Cavalleggero Volterrani, hai preso gli orecchioni ed andrai a curarti presso l’ospedale militare di Tirana». Concluse.
Sul lettino dell’infermeria, attesi per un paio d’ore l’arrivo di un mezzo che mi trasferisse all’ospedale finché un commilitone del plotone comando, riconoscibile da una leggera diversità delle mostrine appuntate al colletto del giubbino, in compagnia dell’ufficiale medico, mi prese sottobraccio e mi accompagnò fuori dove ci attendeva un camion militare. Tremante e spossato per la febbre alta, salii a fatica sulla cabina del camion, mi sedetti al posto del passeggero e, come in trance, subii passivamente la trentina di chilometri del trasferimento dal campo all’ospedale militare.
All’arrivo al nosocomio di Tirana, il militare accompagnatore mi consegnò nelle mani di un tipo che aveva tutto l’aspetto, ma certamente non il modo di comportarsi, dell’infermiere il quale mi accompagnò in un ufficio dove altri militari italiani registrarono le mie generalità ed il corpo d’appartenenza. Poi fui condotto in una specie di spogliatoio dove smisi la divisa militare ed indossai una cappa bianca, allacciata sulle spalle e sul dietro, che mi copriva fin sotto le ginocchia. L’infermiere introdusse a forza la mia divisa in un piccolo sacco, appose un cartellino con le mie generalità, lo ripose in un angusto stipetto e poi mi fece strada lungo un paio di lunghi corridoi. Infine giungemmo in un’ampia camerata, dove una trentina di persone, che indossavano il mio stesso abbigliamento, gironzolavano o stavano coricate sui comodi letti.
Presi posto in uno dei pochi letti vuoti e, per alleviare un po’ i brividi di freddo che ancora scuotevano le membra, mi coprii lasciando libera solo la bocca di quel tanto che bastava per respirare.
Nel pomeriggio inoltrato, i medici di guardia passarono in rassegna i ricoverati e mi sottoposero alla prima visita confermando la diagnosi dell’ufficiale medico del campo militare. Un infermiere, diverso da quello che mi aveva accompagnato al letto, mi procurò un cappuccio arrangiato da una specie di sciarpa di lana e mi consigliò d’indossarlo per tenere al caldo le ghiandole parotidi infiammate dall’infezione. Le cure, nei giorni successivi, consistevano in spennellature delle guance con una pomata nera, forse ittiolo, che faceva bene a tutto, ed un paio di punturoni al giorno di chissà quale medicinale. Le mie condizioni di salute migliorarono rapidamente e già dopo un paio di giorni ero di nuovo in piedi, perfettamente in grado di badare a me stesso. Le guance erano già piuttosto sgonfie tuttavia i medici ritennero che fosse opportuno tenere la sciarpa-cappuccio ancora per qualche tempo.
Dopo due settimane lo staff medico certificò la mia guarigione e fui dimesso. In camerata, un infermiere mi consegnò il sacchetto col mio nome, contenente il mio abbigliamento d’ordinanza, apparentemente in condizioni identiche a quelle di quando ero stato ricoverato. Dal sacchetto estrassi la divisa grinzosa e secca come non mi era mai capitato di vedere in vita mia. Ma le grinze non erano grinze normali, sembrava che il completo fosse stato sottoposto al passaggio di un rullo schiacciasassi. La bustina, addirittura, era ristretta al punto che, sul momento, non fui capace neanche d’indossarla. Avevo l’impressione che fossero stati lavati, asciugati in un forno, magari per disinfettarli, e subito riposti nuovamente nel sacchetto, tanto erano dure e secche le grinze del tessuto. Forse addirittura lavati ed essiccati senza neanche toglierli dal sacchetto. Riuscii a vestirmi, in qualche modo e, in divisa, mi sedetti temporaneamente sul letto sfatto, appoggiato alla testata, con le mani dietro la nuca, in attesa che qualcuno venisse a comunicarmi le mosse successive. Poco dopo giunse il medesimo infermiere. Indietro lungo i corridoi, mi accompagnò all’ufficio accettazione dove mi fu consegnato un foglio che certificava la mia guarigione, da consegnare al comando del Reggimento.
Salii su un camion militare che, secondo la mia impressione, non prese la via di Durazzo, ma si diresse verso l’interno dell’Albania. Durante il tragitto, il militare autista confermò il presentimento, spiegandomi che il Reggimento si era spostato alla periferia di Elbassan, in prossimità del fiume Shkumbini, e fu lì che mi accompagnò.
All’arrivo, mi recai nella baracca del plotone comando, dove era stata allestita la fureria del campo, consegnai il certificato di dimissione dopodichè mi recai in magazzino per ritirare gli effetti personali e presi possesso della mia nuova postazione nella grande baracca adibita a selleria, nei dintorni del ricovero dei cavalli. Il comando del mio squadrone acconsentì nel concedermi i cinque giorni di riposo previsti dal certificato di dimissione tuttavia, alla scadenza della breve convalescenza, mi fu assegnato un servizio di 24 ore di sentinella. Era il primo servizio di guardia che facevo dal giorno in cui ero giunto in forza al Reggimento, se si esclude una nottata trascorsa presso la porta carraia della caserma di Voghera.
Le sentinelle, non ricordo quante, erano disposte lungo il perimetro dell’accampamento in postazioni a vista: durante la notte, in mancanza d’illuminazione, i contatti visivi con le postazioni vicine venivano sostituiti da chiamate alla voce:
«Sentinella all’erta!» urlavamo.
«All’erta sto!» rispondeva la sentinella della postazione vicina che a sua volta passava la chiamata a quella accanto e così via, a catena di voce, fino a ricominciare il giro da dove era iniziato.
Ogni tanto passava la ronda: due o tre soldati ed un ufficiale. Quando li scorgevamo ad una distanza di una decina di metri, imponevamo il classico:
«Altolà! Fermo o sparo!» col moschetto spianato che riponevamo solo dopo aver udito la corretta parola d’ordine dalla voce dell’ufficiale. Ottenuto il benestare all’avvicinamento, l’ufficiale chiedeva le novità e si allontanava verso la postazione successiva.
I turni di guardia erano di due ore, alternate ad altrettante ore di riposo. Al termine dell’ultimo turno di guardia, al mattino presto, il maresciallo responsabile della selleria mi si fece incontro e, con voce stentorea, mi apostrofò:
«Sellaio!»
«Comandi!» risposi scattando impettito sull’attenti.
«Riprendi il tuo posto!» ordinò indicandomi la baracca della selleria. Da quel momento ero di nuovo esente dai servizi ed il primo turno di guardia fu anche l’ultimo, per me.