domenica 22 gennaio 2012

Dalla licenza a capo-arma


Durante il periodo del servizio militare, da Voghera, ero riuscito a venire a casa solo tre volte, di cui solo quella successiva al giuramento fu veramente voluta, mentre le altre due mi furono concesse per testimoniare al processo intentato dalla mia famiglia contro la proprietaria della fattoria della quale eravamo mezzadri.
Nell’autunno precedente la partenza per Voghera, capitò che la zia Giulia fosse protagonista di un incidente casalingo piuttosto serio.
Un giorno come tanti, in cui trafficava per l’ampia cucina al primo piano della cascina abitata dalla numerosa famiglia Volterrani, la zia Giulia stava preparando la cena per la cospicua truppa dei familiari. Senza preavviso alcuno, il pavimento della cucina stessa aveva ceduto di schianto e la povera disgraziata si era trovata sul lastricato del corridoio della stalla sottostante completamente coperta di macerie. Io, per l’appunto, mi trovavo a transitare in prossimità della stalla e fui tra i primi a soccorrerla inducendo gli avvocati a convocarmi per ben due volte alle sedute del processo intentato dalla mia famiglia contro la padrona di casa. Le numerose vacche legate alla mangiatoia, che in quel momento volgevano le terga alla vittima dell’incidente, si agitavano comprensibilmente, mettendo ulteriormente a repentaglio le sue condizioni. Quando giunsi sul posto, le zampe posteriori di un paio di loro sgambettavano freneticamente e pericolosamente nelle immediate vicinanze del corpo inanimato della zia e mi prodigai, innanzitutto, ad allontanare le bestie dalla zona. Dalla stalla, guardando in alto, si vedevano chiaramente diversi vetusti travicelli di sostegno del pavimento della cucina soprastante, la cui robustezza era stata definitivamente compromessa dagli innumerevoli minuscoli fori dei tarli del legno. La pulverulenta segatura dei travicelli rotti cadeva ancora lentamente, quando sopraggiunsi ad aiutare la zia Giulia. L’impressione fu tremenda: la povera zia se ne stava completamente immobile e coperta dalle macerie del pavimento crollato ed in cuor mio temetti seriamente per la sua vita. La testa giaceva immobile, reclinata sul lato destro e la pezzola nera, che la zia usava per coprire il lunghi capelli raccolti sulla nuca in una crocchia voluminosa, giaceva abbandonata lì vicino. La chioma grigia, liberata dalla costrizione delle forcine e della pezzola, coronava irregolarmente la faccia smunta e priva d’espressione della sventurata zia. Presto altri familiari raggiunsero il luogo dell’incidente, attratti dal fragore del crollo e dal grido della malcapitata, e molti di loro si disperavano temendo il peggio. Trascorsi i primi momenti di giustificato sconforto, tutti ci arrabattammo per liberare la zia dalla costrizione dei calcinacci e, cautamente, ne adagiammo il corpo sul pagliericcio dalla parte opposta della mangiatoia, dove gli animali si stavano lentamente ricomponendo.
Ad un primo esame, la zia presentava ferite di lieve entità su diverse zone della faccia e delle braccia, ma quello che faceva più temere erano le condizioni delle gambe e del bacino. Grazie all’efficacia delle esalazioni dell’aceto contenuto in un’ampolla, le donne di famiglia riuscirono a rianimare la zia Giulia che si lamentava di forti dolori proprio al bacino ed alla schiena. Allestita una barella d’emergenza con delle assi recuperate da un angolo della carraia, portammo la zia di sopra, in camera sua, le donne si preoccuparono di disinfettare le ferite e qualcuno corse a chiamare il medico di famiglia che giunse di lì a poco emettendo la sua diagnosi. I forti dolori alla bassa schiena ed al bacino erano dovuti al grave contraccolpo subito nella caduta, ma pareva che non ci fossero fratture o lesioni interne. Il medico, tuttavia, le prescrisse un lungo periodo di riposo per non aggravare eventuali piccole lesioni della colonna vertebrale e delle zone circostanti. Le lacerazioni del volto, al contrario, sarebbero guarite in pochi giorni.
Gli uomini della famiglia si erano a suo tempo ed a più riprese, purtroppo inutilmente, rivolti alla padrona di casa richiedendo interventi di manutenzione sulla cascina che versava in precarie condizioni. In quell’occasione, una volta rassicurati sulle condizioni della zia, presero la palla al balzo per mettersi nelle mani di un avvocato che tutelasse i loro interessi e provvedesse a richiedere un adeguato risarcimento per le lesioni patite dalla congiunta.
Nel frattempo io dovetti partire per adempiere gli obblighi di leva.
Una volta intentata la causa, l’avvocato della mia famiglia comunicò alla locale stazione dei Carabinieri la necessità della mia testimonianza e questi inviarono la richiesta di convocazione direttamente al comando del mio Reggimento d’appartenenza.
Non ricordo i particolari delle due udienze e, viste le vicissitudini che caratterizzarono la mia esperienza militare nel periodo successivo al processo, non ho mai conosciuto gli esiti della causa: posso solo dire che, al mio ritorno, nell’agosto del quarantacinque, l’aspetto della cascina era decisamente migliore di come lo ricordavo.
Al ritorno in caserma da una delle due licenze, forse la prima, nell’autunno del quarantuno, scoprii che il mio squadrone era partito per un’esercitazione nel circondario di Voghera ed il comando del Reggimento decise di farmi ricongiungere al più presto al gruppo. In selleria, raccolsi lo stretto indispensabile per il campo poi, accompagnato da un caporale e da un soldato del plotone comando, saltai in groppa al fiero Alone e mi misi in cammino per raggiungere il manipolo. L’accampamento era stato allestito su un ampio pianoro tra verdi colline da cui si scorgevano cime ben più alte spruzzate di neve. Giungemmo a destinazione che già faceva scuro, assicurammo i cavalli al tronco di una robusta pianta ed il caporale, a cui ero stato assegnato per il ricongiungimento, mi accompagnò alla tenda dove si era preventivamente installato il quartier generale del campo. Ci presentammo impettiti sull’attenti al cospetto del capitano al quale il caporale consegnò la missiva del plotone comando e fummo indirizzati alla fureria del campo. Il furiere registrò il mio arrivo e m’indicò la tenda adibita a selleria all’interno della quale il maresciallo, mio diretto superiore, mi passò le ormai ben note consegne di sellaio, non prima di essersi lamentato per i miei quattro giorni di assenza.
Il giorno successivo era prevista un’esercitazione con la pesante mitragliatrice e fummo inquadrati a file di sei per occupare a turno le altrettante piazzole di terra battuta dalle quali effettuare le operazioni di tiro. Le piazzole dominavano una stretta valle oltre la quale alcune sagome erano state piazzate sul pendio della collina dirimpetto. Attendendo il mio turno, man mano che la mia squadra si avvicinava alle piazzole, mi accorgevo che ben pochi riuscivano ad inquadrare i bersagli a conferma di una scarsità di mira a dir poco disarmante.
“Possibile che sia così difficile colpire i bersagli?” mi chiedevo perplesso.
Più mi avvicinavo alle piazzole e più mi convincevo che le capacità di tiro dei mie commilitoni erano davvero scarse.
Ben presto giunse il mio momento: mi presentai alla piazzola, gridai le generalità all’ufficiale di turno e mi coricai bocconi sulla mitragliatrice dalla canna ancora fumante per i colpi appena scaricati. Mi accoccolai sul calcio e sistemai adeguatamente i due supporti della canna in modo da agevolare al massimo le operazioni di puntamento.
All’ordine dell’ufficiale scaricai la fusciacca di proiettili sul bersaglio di mia competenza e già dai primi colpi mi accorsi che non era poi così difficile. Prendendo confidenza con l’arma, le nuvolette di terra dei colpi mancati intorno alla sagoma diminuirono progressivamente, laddove il bersaglio si deformava sempre di più sotto la gragnola dei colpi della mia mitragliatrice. Al termine, compiaciuto, declinai nuovamente le generalità ed attesi con orgoglio l’esito della prestazione. Soddisfatto del risultato, ritornai tra le file dove fui accolto da pacche sulle spalle e molti sorrisi ironici dei miei commilitoni.
In serata, prima di smontare l’estemporaneo poligono di tiro, al termine dell’esercitazione, il sottufficiale di giornata ci raggiunse tra le fila e confermò i risultati delle nostre prestazioni.
«Dall’esercitazione odierna emerge che, per i notevoli risultati ottenuti, il cavalleggero Volterrani è uno dei nuovi capi-arma e sarà responsabile di una delle mitragliatrici fino al nostro rientro in caserma!» sentenziò il sergente maggiore.
Non feci in tempo a compiacermi per la prestigiosa investitura che i miei compagni, sorridendo sornioni, mi comunicarono il significato di quella nomina.
«Da domani, fino al rientro in caserma, sarai tu che, durante le marce, dovrai sobbarcarti il peso della mitragliatrice sulle spalle!» mi dicevano da più parti. «Hai capito, ora la ragione per cui noi prendevamo la mira dappertutto tranne che sul bersaglio?».
“Ecco perché tutti si dimostravano così incapaci!” mi rammaricai tra me.
Dopo aver lasciato la caserma, nei giorni precedenti il mio rientro, lo squadrone era già stato protagonista di altre due esercitazioni del genere, in due campi diversi, ed ogni volta erano stati nominati capi-arma i migliori tiratori del gruppo.
Al di là del titolo, rivelatosi del tutto fittizio, il capo-arma aveva l’obbligo di sobbarcarsi il peso e l’ingombro della mitragliatrice sulle spalle durate tutti gli spostamenti dello squadrone, fino alla nomina di un nuovo sostituto eletto tra i migliori tiratori delle esercitazioni al poligono. Per mia sfortuna, risultai il migliore dell’ultima prova prevista per quell’uscita e le mie spalle, nonché la mia cavalcatura, dovettero sopportare il pesante fardello della mitragliatrice durante le marce dei successivi tre giorni che ci separavano dal rientro in caserma.
I miei colleghi avevano fatto tesoro delle esperienze precedenti e si guardavano bene dal colpire il bersaglio per non rischiare l’onerosa investitura.
Fu quella la penultima licenza. L’ultima fu qualche giorno prima del Natale del quarantuno ed al rientro in caserma mai e poi mai mi sarei immaginato che sarebbero trascorsi quarantatre lunghi mesi prima di rivedere la mia amata terra.