mercoledì 7 dicembre 2011

Una stravagante esercitazione


Dopo tre mesi d’addestramento, fui assegnato al reparto di selleria reggimentale e, ben presto, mi accorsi di essere stato destinato ad un incarico decente: i compiti della selleria erano abbastanza semplici, rispetto ai normali servizi di caserma quali guardie armate, piantoni, ronde ed altro. Acquisita la necessaria padronanza con i cavalli, la docile Alfetta fu definitivamente rimpiazzata dal ben più energico ed ardimentoso Alone, un grande cavallo nero che quasi era necessaria una scala, per salire in sella. L’affiatamento con Alone raggiunse in fretta ottimi livelli finché divenimmo albania, racconti, cavalleggeri, livorno, ETScompagni inseparabili. Insieme facevamo escursioni nei campi, raramente per le comuni strade, durante le quali incontravamo ostacoli naturali, quali siepi e fossati, che Alone superava sempre senza difficoltà. Non di rado capitava di guadare un fiume e l’acqua arrivava a sfiorare la pancia dell’animale, ma non per questo esso si tirava indietro. La caratteristica peculiare di Alone consisteva nel non rifiutare mai l’ostacolo, come si dice in gergo: affrontava con fiero cipiglio qualsiasi cosa gli si parasse davanti e saltava senza la minima esitazione. Al galoppo, quando il mio cavallo si presentava al cospetto di un ostacolo, si preparava sempre col dovuto anticipo ed io assecondavo i suoi movimenti, o meglio, li anticipavo, da buon cavallerizzo, pronto per seguirlo nel balzo. L’aspetto maestoso e la fierezza con cui si presentava agli ostacoli facevano di lui un cavallo affidabile al punto che veniva schierato, ed io con lui, tra i primi della fila, immediatamente dietro all’ufficiale che guidava il manipolo. Durante le esercitazioni, il primo della fila era il capitano ed il secondo ero io con Alone. Un gran bell’animale.
Un giorno dei tanti, in cui stavamo strigliando le nostre cavalcature nella stalla, fummo convocati per un’esercitazione all’interno del maneggio coperto del Reggimento.
Il maneggio era un’immensa costruzione in mattoni rossi e pietra, di cui la stalla e la selleria facevano parte integrante, quasi totalmente occupata dalla pista disseminata di ostacoli artificiali e mobili. Uno dei lati lunghi della costruzione era interamente dedicato ad una tribunetta, costituita di cinque scalini di legno, a disposizione degli ospiti in occasione di parate ufficiali. Una staccionata, sempre di legno, separava la tribunetta stessa dalla pista vera e propria garantendo agli spettatori un sufficiente grado di sicurezza e di tranquillità. Il tetto era sostenuto da spettacolari ed enormi travi di massiccio legno, forse castagno, che conferivano alla costruzione stabilità e robustezza.
Nella consueta adunata che precedeva sempre le esercitazioni, eravamo schierati fronteggiando la tribuna, nell’ordine prestabilito dal comando ed io, come al solito, mi trovavo di fianco al capitano che di lì a poco avrebbe condotto l’andatura. La mia posizione di privilegiato era assicurata non tanto dalla mia abilità di cavalleggero, quanto piuttosto dalle doti naturali della mia cavalcatura: il fatto che non rifiutasse mai l’ostacolo, era uno stimolo importante per gli equini del resto dello squadrone che, magari solo per spirito d’emulazione, seguivano senza difficoltà il capofila. Un cavallo indeciso, in una posizione così strategica, avrebbe potuto mettere in seria difficoltà lo svolgimento della parata. Con uno squillo, il trombettiere dava il via all’esercitazione e continuava poi ad impartire gli ordini eseguendo sequenze ben definite che i cavalli, perfettamente addestrati a mutare il passo in relazione al ritmo scandito dalla tromba, seguivano senza difficoltà. Solo la tromba impartiva gli ordini. Ogni squillo di tromba assumeva per i cavalli alternativamente l’ordine di passo, trotto o galoppo. L’abilità del cavaliere consisteva nell’assecondare le movenze dell’animale battendo la sella, come dicevamo noi, cioè alzandosi sulle staffe ed alternativamente sedendosi al ritmo dell’andatura. La sincronia dei movimenti, inoltre, assicurava contro l’insorgenza di fastidiosi mal di schiena e, quel che è peggio, fondo schiena che potevano affliggerci anche per diversi giorni.
Iniziavamo al passo, poi al trotto, di nuovo al passo ed infine al galoppo: le esercitazioni al coperto terminavano, quasi sempre, con qualche giro compiuto a saltare gli ostacoli precedentemente disposti sul percorso.
Un’immagine che ancora conservo orgogliosamente, mi ritrae in atteggiamento arrembante durante il coreografico salto di un ostacolo: essa è palesemente un abile montaggio del fotografo del Reggimento, anche se, in realtà, ero abbastanza capace nel salto degli ostacoli ed ho ricevuto spesso riconoscimenti che purtroppo sono andati perduti nelle peripezie che mi hanno coinvolto negli anni successivi. Mi rimane solo un ferro di cavallo in alluminio, col tempo decorato da un fiocco rosso, quale premio per essermi distinto durante un’esibizione interna del Reggimento.
L’esercitazione in questione si stava svolgendo sotto i migliori auspici: Alone andava che era una meraviglia e tutto lo squadrone seguiva a ranghi serrati. Completato l’addestramento, il capitano, dalla testa della fila, in groppa al suo magnifico stallone bianco e nero, fece un cenno perentorio all’indirizzo del trombettiere che intonò le brillanti note che preludevano al salto degli ostacoli.
Alone si lanciò immediatamente al galoppo sfrenato sulle orme della cavalcatura del nostro capitano, ad una distanza tale da prevedere di affrontare l’ostacolo in totale sicurezza. Alone prese il galoppo come mai aveva fatto in precedenza ed io fui costretto ad aggrapparmi al collo ed alla criniera per assecondarlo. L’ostacolo, quattro nudi pali di legno posti di traverso a simulare una staccionata, si avvicinava inesorabilmente. Una volta al suo cospetto, tuttavia, io saltai agevolmente l’ostacolo, mentre Alone rimase dall’altra parte, a zoccoli bloccati. Il cavallo si era improvvisamente ed inaspettatamente impuntato sulle zampe anteriori disarcionandomi e catapultandomi rovinosamente a più di dieci metri di distanza, nel composto di segatura e paglia che ricopriva la pavimentazione del maneggio. Dietro: un putiferio. Il cavallo dietro ad Alone impuntò, imitando il compagno in tutto e per tutto, disarcionando a sua volta il proprio cavaliere anche se meno rovinosamente. Gli altri sbandarono pericolosamente: alcuni di loro andarono a cozzare contro la staccionata, altri, più fortunati, aggirarono l’ostacolo all’ultimo momento. Molti dei miei commilitoni andarono a sbattere contro la nuda terra, ed altri scavalcarono la balaustra finendo sui gradini della tribunetta, incapaci di reagire all’inattesa situazione. Dal canto mio, reduce da un lungo volo oltre l’ostacolo e da un ruzzolone in mezzo alla paglia sul duro pavimento, stentavo a capacitarmi di cosa aveva potuto provocare una sbandata del genere. Ancora intontito dal duro colpo sofferto mi ritrovavo, inerme spettatore, ad assistere alle estemporanee evoluzioni della truppa, con la testa che mi girava vorticosamente. Il Capitano, attratto dal trambusto, si era arrestato poco più avanti ed osservava, attentamente e senza battere ciglio, l’evolversi della grottesca situazione. Io non sapevo più a che santo votarmi. Con la paglia che mi usciva persino dalle orecchie, alternavo uno sguardo al mio comandante ed uno ai compagni d’armi confidando in un rapido acquietarsi delle turbinose acque. Cavalli strascicati per terra e divise militari sparpagliate sul fondo del maneggio stavano finalmente cercando di riassumere la posizione eretta e, per mio sollievo, potevo notare che nessuno si era fatto del male. La tempesta era in fase di risoluzione allorché scorsi, con la coda dell’occhio, che il capitano era smontato da cavallo e si stava lentamente avvicinando sbattendo ritmicamente il frustino d’ordinanza contro il robusto cuoio degli stivali. Stordito ed incapace di qualsiasi reazione, ero ancora seduto per terra con le gambe leggermente flesse, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa sconsolatamente accolta dal palmo delle mie mani aperte.
«Cavalleggero Volterrani!» Mi apostrofò duramente il capitano. «Chi è stato il più cretino: Alone o te?».
Becco e bastonato! Intimorito dal tono della voce dell’ufficiale, non mi azzardavo a dare una risposta e lui insisteva:
«Di chi è la colpa, tua o del cavallo?».
«Mah! Signor capitano…» Balbettavo io a fatica, sputando qua e là i fili della paglia che avevo ancora in bocca.
Silenzio di tomba: perfino gli animali, ormai in posizione eretta, sembravano avvertire la gravità del momento e non si lasciarono sfuggire neanche uno sbuffo, dalle narici sudate.
Il Capitano non se ne fece né in qua né in là e, col cipiglio consentitogli dalla divisa che indossava, insistette nel chiedermi di chi era la colpa o chi fosse stato il più cretino tra me e la mia cavalcatura. Da recluta, al cospetto delle tre stellette che ornavano le spalline della giacca e dell’atteggiamento superbo dell’ufficiale, mi feci piccolo-piccolo e con un fil di voce mi limitai a rispondere un: «Signorsì, Signor Capitano!» che non stava né in cielo né in terra, ma che fu sufficiente a scatenare nel mio interlocutore uno sbotto di risa tonanti al quale, ben presto si unirono tutti coloro che avevano assistito alla scena. Da principio umiliato, ma poi divertito, finii per unirmi all’ilarità generale: mi rialzai sereno, mi scossi la giacca ed i calzoni impolverati, recuperai il copricapo a bustina ed andai a controllare che neanche Alone avesse subito alcun danno.
Per concludere, il divertimento dell’ufficiale consisteva nell’avermi portato a darmi del cretino per conto mio, oltre a farmi ammettere di essere stato un incapace, escludendo a priori una qualsiasi responsabilità dello stimatissimo Alone. Devo riconoscere, per contro, che la sortita del mio superiore aveva risolto in fretta e sdrammatizzato una situazione che poteva avere conseguenze ben più tragiche per me, per il mio cavallo e per il resto della truppa. Sfiorata la tragedia ed appurato che il manipolo, cavalli e cavalieri, stava bene, il capitano aveva dimostrato lo spirito giusto per risolvere in fretta la delicata situazione.
Un pizzico d’umanità, anche nell’ambiente militare, ogni tanto non guasta!