venerdì 2 settembre 2011

La chiamata alle armi

   
Il 3 gennaio del 1941, fui chiamato a svolgere il servizio militare ed ero in ritardo, rispetto alla chiamata regolare in quanto, alla prima visita, fui fatto rivedibile: in sostanza, pur nato nel 1919, partii assieme agli scaglioni del 1920. A dire il vero anche la classe 1921 partì insieme a noi, in anticipo, rispetto alla chiamata regolare, a causa della guerra in corso. La mia destinazione fu il 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”, di stanza a Voghera, ma ero pienamente consapevole del rischio reale di essere travolto dal conflitto, prima o dopo.

antonio tonino volterrani, albania, racconti di un cavalleggero, etsLa sera della partenza, prima di uscire da casa, la complessa operazione dei saluti ai numerosi familiari (il nostro nucleo era composto di tre famiglie intere, undici persone in tutto) fu abbastanza macchinosa. Ovviamente i miei genitori ottennero un trattamento di riguardo e mia madre, in particolare, si dilungò in penose raccomandazioni presagio di un futuro per niente sereno.
Prima di cena, una visita al casale in cui abitavano i miei futuri suoceri mi aveva consentito di tributare il doveroso e penoso saluto al mio unico amore: Giorgina mi chiedeva di tornare presto ed io non facevo altro che assicurarglielo fermamente tuttavia, in cuor mio, temevo che la separazione sarebbe durata desolatamente a lungo. Il freddo pungente aveva accompagnato le nostre conclusive effusioni e la lasciai, in lacrime, sul pianerottolo delle scale esterne di casa sua illuminato dalla flebile luce della luna, mentre mi allontanavo mesto. All’altezza del pozzo, mi voltai un’ultima volta accennando ad un saluto con la mano, prontamente ricambiato.

In compagnia di Gino, il mio fratello maggiore, m’incamminai malinconicamente verso la stazione ferroviaria di Cecina dove, intorno alla mezzanotte, era previsto passare il treno che mi avrebbe condotto fino a Genova; la coincidenza per Voghera mi avrebbe consentito di giungere a destinazione.
La pallida luna della fredda serata invernale rischiarava i nostri passi sulle strade bianche in mezzo alle terre di Collemezzano, poi attraversammo San Pietro in Palazzi e finalmente giungemmo, con sufficiente anticipo, alla piazza alberata antistante la stazione di Cecina. Durante il tragitto, il dialogo con mio fratello fu imperniato su previsioni riguardanti il servizio militare, la vita di caserma, le esercitazioni e tutto il resto ma non pronunciammo una sola parola sul possibile coinvolgimento nel conflitto mondiale, anche se il tarlo s’insinuava inesorabilmente nel mio cervello preoccupato. In quel momento, oltretutto, eravamo ignari che mio fratello stesso, pur più anziano di me di ben nove anni e già congedato da lungo tempo, sarebbe stato oggetto di una nuova chiamata alle armi a causa della piega che il conflitto avrebbe preso da lì in avanti. 
Il treno giunse puntuale, a mezzanotte. Ci abbracciammo calorosamente. A stento riuscii a trattenere le lacrime ed un nodo mi serrava la gola riarsa dalla commozione. Salii i due alti scalini e m’incamminai nel corridoio del vagone, senza voltarmi. Udii il pesante portello che sbatteva, subito prima che il fischio del capotreno dichiarasse il via libera alla partenza del convoglio. Mi sedetti sulla nuda panca di legno, ma non resistetti alla tentazione di affacciarmi al finestrino cosicché mi alzai di nuovo, abbassai il vetro e mi sporsi alla ricerca di un ultimo sguardo familiare. Mio fratello levò in alto l’inseparabile cappello grigio scuro, stile Borsalino, in un benevolo saluto ed io contraccambiai agitando la mano, mentre la stazione sfilava lentamente all’indietro. Rientrai con la testa.

Ci volle poco a capire che, nel mio stesso scompartimento, qualcun altro si preparava ad affrontare un destino simile al mio. Rincantucciato in un angolo, un ragazzo aveva seguito le mie mosse fin dal momento in cui ero entrato nello scompartimento. Dopo pochi chilometri spesi a squadrarci reciprocamente, egli si fece avanti.
«Militare?» mi chiese.
«Cavalleggero!» risposi semplicemente.
«Anch’io!» rispose sollevato «Mi chiamo Nello e sto andando a Voghera!» riprese porgendo la mano per la presentazione.
Era nativo di Bibbona, una borgata a pochi chilometri da Cecina. Ci rallegrammo della lieta combinazione che, se non altro, ci consentiva di condividere il viaggio ed affrontare insieme le difficoltà d’inserimento in caserma.
Presto passò il controllore che rimosse un talloncino dalla cartolina-precetto di un colore azzurro sbiadito, l’equivalente del biglietto ferroviario, per i militari in trasferimento. Sonnecchiammo, durante il tragitto, cullati dal classico, monotono frastuono generato dal passaggio delle ruote del vagone sopra le giunture delle verghe della strada ferrata. Al grido del controllore che segnalava l’approssimarsi della stazione di Genova Brignole, ci alzammo, ci stiracchiammo le membra rattrappite raccattammo le rispettive valigie e ci appropinquammo verso l’uscita. L’imponente aspetto della stazione incuteva timore a due ragazzi che mai si erano allontanati dal podere di famiglia, se non per qualche escursione nei villaggi limitrofi, tuttavia non ci perdemmo d’animo. L’impiegato dell’ufficio informazioni c’indicò un autobus del servizio pubblico che ci condusse ad un’altra stazione di Genova, Piazza Principe, dove, nel giro di un’oretta, avremmo dovuto imbarcare su un altro convoglio per percorrere la tratta finale fino a Voghera. 
Giungemmo a destinazione alle primissime luci dell’alba. Nevicava a grosse falde. Rincalzammo il collo nel bavero alzato del cappotto e scendemmo mesti tuttavia attenti a non scivolare sul marciapiede imbiancato. Gettammo, negli ambienti solitari della stazione, smarriti sguardi alla ricerca di una divisa o di qualsiasi altro punto di riferimento. Nell’atrio, finalmente, ci accorgemmo di un gruppetto di ragazzi pressoché nostri coetanei, tutti coi capelli cortissimi, che facevano capannello attorno ad un personaggio che potevamo solo intravedere. Ci avvicinammo e scorgemmo il cappello a bustina di un militare che, con voce stentorea, stava imponendo la propria autorità sui novelli militari più disorientati che interessati. Ci unimmo al gruppo e ci presentammo al coetaneo graduato (avremmo poi scoperto che si trattava di un caporale di truppa). Di gran carriera il caporale diede inizio alla marcia. Attraversammo la piazza antistante la stazione e ci dirigemmo, trafelati ed oberati dal peso della valigia, verso un colonnato che ci protesse dalla nevicata incombente, sempre al seguito dell’arrembante passo del nostro accompagnatore. Al termine del loggiato, tuttavia, al cospetto di un muro nudo, il caporale si fermò repentinamente pronto a cambiare direzione verso la propria destra ed altrettanto fecero coloro che lo seguivano nelle immediate vicinanze. Purtroppo la reazione delle seconde file, tra le quali mi trovavo anch’io, non fu altrettanto pronta e finimmo per sospingere e poi schiacciare le prime file ed il caporale stesso contro l’inatteso muro. Tutto mi sarei aspettato dal primo impatto con la nuova realtà fuorché una musata contro l’intonaco ruvido di quella parete apparsa dal nulla.

È tutto vero, lo assicuro: ho riconosciuto il loggiato e, soprattutto, il muro fatidico durante una visita di qualche anno fa a Voghera, insieme al fedele compagno d’armi Ardeno, con cui avrei condiviso parte delle mie disavventure. 
La nevicata si placò un poco, allorché giungemmo al cospetto dell’imponente facciata della caserma “Vittorio Emanuele II”, sede del 13° Reggimento Cavalleggeri “Monferrato”. Era quasi mezzogiorno, quando varcammo il maestoso portone d’ingresso. Anche i miei nuovi compagni, come me, ruotavano la testa a destra e sinistra, quasi ritmicamente, assecondando lo sguardo che esplorava l’ignoto ambiente circostante.
La prima giornata, assolutamente campale e trascorsa nell’approssimazione più totale, terminò sul pagliericcio della scuderia, dove trascorremmo la prima notte senza una coperta o quant’altro avrebbe potuto rendere meno crudo e brutale l’impatto con la nuova realtà. Ci consolava che l’ambiente era reso, se non altro, sufficientemente caldo dalla presenza e dall’alito dei numerosi cavalli. La spartana sistemazione fu il più azzeccato dei presagi di ciò che avremmo dovuto aspettarci dall’imminente esperienza militare.
La mattina successiva, con le ossa a pezzi e più stanchi della sera precedente, per la scomoda posizione tenuta durante la notte, eravamo già di visita in infermeria. Completamente nudo, di fianco al mio nuovo amico, nelle identiche condizioni, attendevo il mio turno in una specie d’anticamera completamente disadorna e con le pareti ricamate da antiestetiche macchie di muffa verde. Entrai timidamente nell’ambulatorio e declinai le mie generalità al soldato di turno dopodichè fui invitato a salire su una bilancia: poco più di sessanta chili. Poi mi posizionai vicino ad una colonna graduata raggiungendo la tacca del metro e settantuno ed infine mi presentai al cospetto dell’ufficiale medico. Seduto al di là di una scrivania scura piena di fogli e cartelle, mi porse un sacco di domande su eventuali gravi problemi di salute in famiglia, tipo diabete, epilessia ed altre, poi si alzò ed osservò la bocca, la gola, il naso e le orecchie. Con attenzione esaminò la mia capigliatura alla ricerca, per altro vana, di eventuali pidocchi o altri parassiti. Attastò la base del mio collo, sotto la mandibola poi spostò la sua attenzione all’inguine. Con due dita esercitò un’energica pressione tra la coscia e il corpo, prima da una parte poi dall’altra, esortandomi a tossire ripetutamente: niente ernia inguinale. L’esito negativo di una radiografia al torace sancì la definitiva idoneità all’arruolamento della recluta Volterrani col 13° Reggimento Cavalleggeri di “Monferrato”.

Fui spedito in magazzino dove altri militari mi rivestirono da capo a piedi e mi fornirono di tutto quanto avrei potuto aver bisogno durante la mia permanenza in caserma: dal vestiario alle borse da viaggio, dai bottoni al filo per cucire, dalla crema da barba al rasoio. Riposi l’abbigliamento borghese nella valigia e me la dimenticai sul fondo dell’armadietto a fianco della branda finché, attraverso la fureria, ne feci un pacco postale da inviare a casa mia. 
Durante il periodo d’addestramento, imparai a conoscere i cavalli, a prendermene cura con la striglia, a governarli, abbeverarli e soddisfare ogni loro necessità. Imparai soprattutto che, per un cavalleggero, tale ero destinato a divenire io, il cavallo viene prima di tutto: al ritorno da un’escursione, prima si sistema il cavallo, si mette a suo agio, poi si pensa a noi stessi.
Mi fu affidata Alfetta, dopo qualche giorno, una baia cavallina troppo docile e timorosa per far parte di un reggimento di soldati, ma probabilmente ritenuta adatta ad assecondare le inevitabili incertezze di un aspirante cavalleggero. Il carattere docile di Alfetta, comunque, non si palesò subito anzi, la prima volta che provai a darle da mangiare, ad onor del vero un po’ impacciato, fui ripagato con un morso ad un braccio e solo la mia prontezza di riflessi mi consentì di evitare guai peggiori. Poi, superato il primo inevitabile scoglio delle presentazioni, Alfetta si dimostrò disciplinata ed accondiscendente a qualsiasi mio approccio. La strigliavo ogni sera ed ogni sera le riempivo di appetitoso Energon, un pastone secco di avena, biada, farina di carrube ed altri cereali, la taschetta che le fissavo dietro le orecchie con robuste cinghie di cuoio. La abbeveravo col secchiello, un contenitore impermeabile dalla forma a mantice che, una volta ripiegato, poteva essere facilmente riposto nella tasca del borsone da viaggio insieme alla taschetta per il mangime.
Durante il periodo d’addestramento, le sedute con i cavalli, nel grande maneggio coperto, si alternavano ad esercitazioni di ginnastica libera in palestra. In particolare il mio approccio con alcuni attrezzi della palestra non fu dei più felici: la corsa e le evoluzioni a terra non erano un problema, così come la salita sulla pertica, la giravolta alla sua sommità, oltre la traversa orizzontale, e la conseguente discesa. Neanche il volteggio al cavallo con maniglie, nonostante un esitante approccio, si rivelò particolarmente complicato. Al contrario, mi scontrai più volte, e piuttosto duramente, con l’ascesa della fune fino ad incaponirmi come se avessi un conto personale da regolare: e l’ufficiale istruttore rincarava la dose, sollecitandomi con repentine bacchettate del frustino di cuoio sui polpacci, ogni volta che mi vedeva in difficoltà alla base della corda. Non fu facile, tuttavia dopo qualche giorno, una volta affinata la tecnica e spronato calorosamente dai compagni, finalmente ci riuscii meritandomi perfino i complimenti dell’ufficiale in questione, il quale sembrava bearsi dell’effetto delle sue scudisciate piuttosto che delle mie acquisite capacità fisiche.
Fuori della palestra, il confronto con gli animali, per la verità, era molto più esaltante: imparai a cavalcare in posizione eretta, a battere la sella, a saltare gli ostacoli ed assecondare le movenze della mia cavalcatura. L’affiatamento con l’animale aumentava col progredire delle esercitazioni e finimmo per divenire un tutt’uno, nelle evoluzioni richieste dall’istruttore.


Sotto le armi ebbi modo di fare molte amicizie e, oltre a Nello, col quale avevo condiviso il viaggio, conobbi Ardeno ed Osvaldo, anch’essi miei conterranei: pur essendo residenti nelle campagne di Collemezzano, come me, non era mai capitato di frequentarci da civili, ma ciò non si rivelò assolutamente un ostacolo alla nostra amicizia, se vogliamo favorita e poi rafforzata dalla situazione contingente. Entrambi si trovavano sotto le armi da circa sei mesi e confidavano di congedarsi entro l’anno solare o, al massimo, all’inizio di quello successivo, al termine dei previsti diciotto mesi di naia: purtroppo la sorte aveva in serbo ben altro, per loro… ed anche per me!