Il 3 gennaio del 1941, fui chiamato a
svolgere il servizio militare ed ero in ritardo, rispetto alla chiamata regolare
in quanto, alla prima visita, fui fatto rivedibile: in sostanza, pur nato nel
1919, partii assieme agli scaglioni del 1920. A dire il vero anche la classe
1921 partì insieme a noi, in anticipo, rispetto alla chiamata regolare, a causa
della guerra in corso. La mia destinazione fu il 13° Reggimento Cavalleggeri di
“Monferrato”, di stanza a Voghera, ma ero pienamente consapevole del
rischio reale di essere travolto dal conflitto, prima o dopo.
Prima di cena, una visita al casale in cui
abitavano i miei futuri suoceri mi aveva consentito di tributare il doveroso e
penoso saluto al mio unico amore: Giorgina mi chiedeva di tornare presto ed io
non facevo altro che assicurarglielo fermamente tuttavia, in cuor mio, temevo
che la separazione sarebbe durata desolatamente a lungo. Il freddo pungente
aveva accompagnato le nostre conclusive effusioni e la lasciai, in lacrime, sul
pianerottolo delle scale esterne di casa sua illuminato dalla flebile luce della
luna, mentre mi allontanavo mesto. All’altezza del pozzo, mi voltai un’ultima
volta accennando ad un saluto con la mano, prontamente
ricambiato.
In compagnia di Gino, il mio fratello
maggiore, m’incamminai malinconicamente verso la stazione ferroviaria di Cecina
dove, intorno alla mezzanotte, era previsto passare il treno che mi avrebbe
condotto fino a Genova; la coincidenza per Voghera mi avrebbe consentito di
giungere a destinazione.
La pallida luna della fredda serata
invernale rischiarava i nostri passi sulle strade bianche in mezzo alle terre di
Collemezzano, poi attraversammo San Pietro in Palazzi e finalmente giungemmo,
con sufficiente anticipo, alla piazza alberata antistante la stazione di Cecina.
Durante il tragitto, il dialogo con mio fratello fu imperniato su previsioni
riguardanti il servizio militare, la vita di caserma, le esercitazioni e tutto
il resto ma non pronunciammo una sola parola sul possibile coinvolgimento nel
conflitto mondiale, anche se il tarlo s’insinuava inesorabilmente nel mio
cervello preoccupato. In quel momento, oltretutto, eravamo ignari che mio
fratello stesso, pur più anziano di me di ben nove anni e già congedato da lungo
tempo, sarebbe stato oggetto di una nuova chiamata alle armi a causa della piega
che il conflitto avrebbe preso da lì in avanti.
Il treno giunse puntuale, a mezzanotte. Ci
abbracciammo calorosamente. A stento riuscii a trattenere le lacrime ed un nodo
mi serrava la gola riarsa dalla commozione. Salii i due alti scalini e
m’incamminai nel corridoio del vagone, senza voltarmi. Udii il pesante portello
che sbatteva, subito prima che il fischio del capotreno dichiarasse il via
libera alla partenza del convoglio. Mi sedetti sulla nuda panca di legno, ma non
resistetti alla tentazione di affacciarmi al finestrino cosicché mi alzai di
nuovo, abbassai il vetro e mi sporsi alla ricerca di un ultimo sguardo
familiare. Mio fratello levò in alto l’inseparabile cappello grigio scuro, stile
Borsalino, in un benevolo saluto ed io contraccambiai agitando la mano, mentre
la stazione sfilava lentamente all’indietro. Rientrai con la
testa.
Ci volle poco a capire che, nel mio stesso
scompartimento, qualcun altro si preparava ad affrontare un destino simile al
mio. Rincantucciato in un angolo, un ragazzo aveva seguito le mie mosse fin dal
momento in cui ero entrato nello scompartimento. Dopo pochi chilometri spesi a
squadrarci reciprocamente, egli si fece avanti.
«Militare?» mi chiese.
«Cavalleggero!» risposi
semplicemente.
«Anch’io!» rispose sollevato «Mi chiamo
Nello e sto andando a Voghera!» riprese porgendo la mano per la
presentazione.
Era nativo di Bibbona, una borgata a pochi
chilometri da Cecina. Ci rallegrammo della lieta combinazione che, se non altro,
ci consentiva di condividere il viaggio ed affrontare insieme le difficoltà
d’inserimento in caserma.
Presto passò il controllore che rimosse un
talloncino dalla cartolina-precetto di un colore azzurro sbiadito, l’equivalente
del biglietto ferroviario, per i militari in trasferimento. Sonnecchiammo,
durante il tragitto, cullati dal classico, monotono frastuono generato dal
passaggio delle ruote del vagone sopra le giunture delle verghe della strada
ferrata. Al grido del controllore che segnalava l’approssimarsi della stazione
di Genova Brignole, ci alzammo, ci stiracchiammo le membra rattrappite
raccattammo le rispettive valigie e ci appropinquammo verso l’uscita.
L’imponente aspetto della stazione incuteva timore a due ragazzi che mai si
erano allontanati dal podere di famiglia, se non per qualche escursione nei
villaggi limitrofi, tuttavia non ci perdemmo d’animo. L’impiegato dell’ufficio
informazioni c’indicò un autobus del servizio pubblico che ci condusse ad
un’altra stazione di Genova, Piazza Principe, dove, nel giro di un’oretta,
avremmo dovuto imbarcare su un altro convoglio per percorrere la tratta finale
fino a Voghera.
Giungemmo a destinazione alle primissime
luci dell’alba. Nevicava a grosse falde. Rincalzammo il collo nel bavero alzato
del cappotto e scendemmo mesti tuttavia attenti a non scivolare sul marciapiede
imbiancato. Gettammo, negli ambienti solitari della stazione, smarriti sguardi
alla ricerca di una divisa o di qualsiasi altro punto di riferimento.
Nell’atrio, finalmente, ci accorgemmo di un gruppetto di ragazzi pressoché
nostri coetanei, tutti coi capelli cortissimi, che facevano capannello attorno
ad un personaggio che potevamo solo intravedere. Ci avvicinammo e scorgemmo il
cappello a bustina di un militare che, con voce stentorea, stava imponendo la
propria autorità sui novelli militari più disorientati che interessati. Ci
unimmo al gruppo e ci presentammo al coetaneo graduato (avremmo poi scoperto che
si trattava di un caporale di truppa). Di gran carriera il caporale diede inizio
alla marcia. Attraversammo la piazza antistante la stazione e ci dirigemmo,
trafelati ed oberati dal peso della valigia, verso un colonnato che ci protesse
dalla nevicata incombente, sempre al seguito dell’arrembante passo del nostro
accompagnatore. Al termine del loggiato, tuttavia, al cospetto di un muro nudo,
il caporale si fermò repentinamente pronto a cambiare direzione verso la propria
destra ed altrettanto fecero coloro che lo seguivano nelle immediate vicinanze.
Purtroppo la reazione delle seconde file, tra le quali mi trovavo anch’io, non
fu altrettanto pronta e finimmo per sospingere e poi schiacciare le prime file
ed il caporale stesso contro l’inatteso muro. Tutto mi sarei aspettato dal primo
impatto con la nuova realtà fuorché una musata contro l’intonaco ruvido di
quella parete apparsa dal nulla.
È tutto vero, lo assicuro: ho riconosciuto
il loggiato e, soprattutto, il muro fatidico durante una visita di qualche anno
fa a Voghera, insieme al fedele compagno d’armi Ardeno, con cui avrei condiviso
parte delle mie disavventure.
La nevicata si placò un poco, allorché
giungemmo al cospetto dell’imponente facciata della caserma “Vittorio Emanuele
II”, sede del 13° Reggimento
Cavalleggeri “Monferrato”. Era quasi mezzogiorno, quando varcammo il
maestoso portone d’ingresso. Anche i miei nuovi compagni, come me, ruotavano la
testa a destra e sinistra, quasi ritmicamente, assecondando lo sguardo che
esplorava l’ignoto ambiente circostante.
La prima giornata, assolutamente campale e
trascorsa nell’approssimazione più totale, terminò sul pagliericcio della
scuderia, dove trascorremmo la prima notte senza una coperta o quant’altro
avrebbe potuto rendere meno crudo e brutale l’impatto con la nuova realtà. Ci
consolava che l’ambiente era reso, se non altro, sufficientemente caldo dalla
presenza e dall’alito dei numerosi cavalli. La spartana sistemazione fu il più
azzeccato dei presagi di ciò che avremmo dovuto aspettarci dall’imminente
esperienza militare.
La mattina successiva, con le ossa a pezzi
e più stanchi della sera precedente, per la scomoda posizione tenuta durante la
notte, eravamo già di visita in infermeria. Completamente nudo, di fianco al mio
nuovo amico, nelle identiche condizioni, attendevo il mio turno in una specie
d’anticamera completamente disadorna e con le pareti ricamate da antiestetiche
macchie di muffa verde. Entrai timidamente nell’ambulatorio e declinai le mie
generalità al soldato di turno dopodichè fui invitato a salire su una bilancia:
poco più di sessanta chili. Poi mi posizionai vicino ad una colonna graduata
raggiungendo la tacca del metro e settantuno ed infine mi presentai al cospetto
dell’ufficiale medico. Seduto al di là di una scrivania scura piena di fogli e
cartelle, mi porse un sacco di domande su eventuali gravi problemi di salute in
famiglia, tipo diabete, epilessia ed altre, poi si alzò ed osservò la bocca, la
gola, il naso e le orecchie. Con attenzione esaminò la mia capigliatura alla
ricerca, per altro vana, di eventuali pidocchi o altri parassiti. Attastò la
base del mio collo, sotto la mandibola poi spostò la sua attenzione all’inguine.
Con due dita esercitò un’energica pressione tra la coscia e il corpo, prima da
una parte poi dall’altra, esortandomi a tossire ripetutamente: niente ernia
inguinale. L’esito negativo di una radiografia al torace sancì la definitiva
idoneità all’arruolamento della recluta Volterrani col 13° Reggimento Cavalleggeri di
“Monferrato”.
Fui spedito in magazzino dove altri
militari mi rivestirono da capo a piedi e mi fornirono di tutto quanto avrei
potuto aver bisogno durante la mia permanenza in caserma: dal vestiario alle
borse da viaggio, dai bottoni al filo per cucire, dalla crema da barba al
rasoio. Riposi l’abbigliamento borghese nella valigia e me la dimenticai sul
fondo dell’armadietto a fianco della branda finché, attraverso la fureria, ne
feci un pacco postale da inviare a casa mia.
Durante il periodo d’addestramento, imparai
a conoscere i cavalli, a prendermene cura con la striglia, a governarli,
abbeverarli e soddisfare ogni loro necessità. Imparai soprattutto che, per un
cavalleggero, tale ero destinato a divenire io, il cavallo viene prima di tutto:
al ritorno da un’escursione, prima si sistema il cavallo, si mette a suo agio,
poi si pensa a noi stessi.
Mi fu affidata Alfetta, dopo qualche
giorno, una baia cavallina troppo docile e timorosa per far parte di un
reggimento di soldati, ma probabilmente ritenuta adatta ad assecondare le
inevitabili incertezze di un aspirante cavalleggero. Il carattere docile di
Alfetta, comunque, non si palesò subito anzi, la prima volta che provai a darle
da mangiare, ad onor del vero un po’ impacciato, fui ripagato con un morso ad un
braccio e solo la mia prontezza di riflessi mi consentì di evitare guai
peggiori. Poi, superato il primo inevitabile scoglio delle presentazioni,
Alfetta si dimostrò disciplinata ed accondiscendente a qualsiasi mio approccio.
La strigliavo ogni sera ed ogni sera le riempivo di appetitoso Energon, un pastone secco di avena,
biada, farina di carrube ed altri cereali, la taschetta che le fissavo dietro le
orecchie con robuste cinghie di cuoio. La abbeveravo col secchiello, un
contenitore impermeabile dalla forma a mantice che, una volta ripiegato, poteva
essere facilmente riposto nella tasca del borsone da viaggio insieme alla
taschetta per il mangime.
Durante il periodo d’addestramento, le
sedute con i cavalli, nel grande maneggio coperto, si alternavano ad
esercitazioni di ginnastica libera in palestra. In particolare il mio approccio
con alcuni attrezzi della palestra non fu dei più felici: la corsa e le
evoluzioni a terra non erano un problema, così come la salita sulla pertica, la
giravolta alla sua sommità, oltre la traversa orizzontale, e la conseguente
discesa. Neanche il volteggio al cavallo con maniglie, nonostante un esitante
approccio, si rivelò particolarmente complicato. Al contrario, mi scontrai più
volte, e piuttosto duramente, con l’ascesa della fune fino ad incaponirmi come
se avessi un conto personale da regolare: e l’ufficiale istruttore rincarava la
dose, sollecitandomi con repentine bacchettate del frustino di cuoio sui
polpacci, ogni volta che mi vedeva in difficoltà alla base della corda. Non fu
facile, tuttavia dopo qualche giorno, una volta affinata la tecnica e spronato
calorosamente dai compagni, finalmente ci riuscii meritandomi perfino i
complimenti dell’ufficiale in questione, il quale sembrava bearsi dell’effetto
delle sue scudisciate piuttosto che delle mie acquisite capacità
fisiche.
Fuori della palestra, il confronto con gli
animali, per la verità, era molto più esaltante: imparai a cavalcare in
posizione eretta, a battere la sella, a saltare gli ostacoli ed assecondare le
movenze della mia cavalcatura. L’affiatamento con l’animale aumentava col
progredire delle esercitazioni e finimmo per divenire un tutt’uno, nelle
evoluzioni richieste dall’istruttore.
Sotto le armi ebbi modo di fare molte
amicizie e, oltre a Nello, col quale avevo condiviso il viaggio, conobbi Ardeno
ed Osvaldo, anch’essi miei conterranei: pur essendo residenti nelle campagne di
Collemezzano, come me, non era mai capitato di frequentarci da civili, ma ciò
non si rivelò assolutamente un ostacolo alla nostra amicizia, se vogliamo
favorita e poi rafforzata dalla situazione contingente. Entrambi si trovavano
sotto le armi da circa sei mesi e confidavano di congedarsi entro l’anno solare
o, al massimo, all’inizio di quello successivo, al termine dei previsti diciotto
mesi di naia: purtroppo la sorte aveva in serbo ben altro, per loro… ed anche
per me!